Esteri

La fine della civiltà: l’attacco ignobile di Hamas…

di Redazione -


La fine della civiltà: l’attacco ignobile di Hamas

di DOMENICO FRACCHIOLLA*

L’attacco ignobile di Hamas del 7 ottobre ha determinato la morte di 1200 civili israeliani inermi, mentre la reazione di Tel Aviv, con intensi bombardamenti, ha provocato la morte di 2300 persone, soprattutto civili, anche in questo caso. Inoltre, il governo di Israele ha deciso di entrare con l’esercito a Gaza: secondo diversi osservatori una trappola perfetta preparata dai terroristi, una battaglia urbana, incubo di ogni militare. Si prepara una grande carneficina.

Da quando l’etica è entrata nella Relazioni Internazionali alla fine della Prima guerra mondiale, l’imbarbarimento caratterizza la Comunità Internazionale. Ad ogni conflitto si registra un salto in avanti della violenza e un salto indietro nel tempo della barbarie, nella violazione delle regole dei conflitti stabilite nello jus ad bellum e nello jus in bello. Quasi tutti gli strumenti giuridici di cui si sono dotati gli Stati sono disapplicati. Da una parte vi sono i principi e i valori superiori delle democrazie, per le quali i modi e i tempi degli interventi militari non possono superare certe linee, giuridiche e morali, pur nell’imperativo della indisponibilità a trattare con i portatori del male assoluto, Hamas, l’Isis, nel recente passato i Talebani in Afghanistan e tutte le forze estremiste con spinte totalitarie, che possono e devono essere estirpate, con ogni mezzo. In questo raggruppamento è associata da due anni, per alcuni versi, secondo le posizioni atlantiste più intransigenti, la Russia di Putin, a causa dell’invasione in Ucraina. Thomas Friedman, tra i più autorevoli osservatori del Medio Oriente, si iscrive a questo gruppo e propone come soluzione per la guerra di Gaza l’eliminazione di Hamas anche al prezzo di gravi perdite e di grandissime sofferenze per la popolazione civile, come premessa per avviare un processo di pacificazione con un attore diverso. La proposta di Friedman è una rinnovata Autorità Nazionale Palestinese, che nella versione attuale mal governa la West bank con il corrotto ottuagenario Abu Mazen, senza tenere elezioni presidenziali dal 2005 e parlamentari dal 2006.

Un’opzione alternativa è offerta dalla Scuola realista delle Relazioni Internazionali, con il combinato disposto di equilibrio e politica di potenza degli stati, nel quale l’intransigenza dei principi e delle motivazioni etiche cede il passo alla migliore soluzione possibile per la stabilità internazionale e la composizione delle crisi, nella consapevolezza che evitare una carneficina ancora peggiore e probabile, considerata la distribuzione di forze sul campo e gli interessi contrapposti, vale qualsiasi accordo. Secondo questo approccio, come considera Alberto Negri, bisogna essere pronti a negoziare anche con il demonio pur di portare a casa il risultato del risparmio di vite innocenti, la stabilizzazione e la pace, anche incerta. In questo quadro, il conflitto nella striscia di Gaza e la questione palestinese in generale diventano una pedina del complesso degli equilibri in Medio Oriente, che si spiega con la necessità, tanto per Hamas, quanto per l’Iran suo principale finanziatore e sponsor, di ostacolare la politica del sionismo revisionista di Israele, in procinto di conseguire la storica normalizzazione con l’Arabia Saudita.

In questo momento, una trattativa tra le parti è impronunciabile e impensabile. Dovremo attendere settimane e l’intervento più incisivo della diplomazia internazionale. La responsabilità di governo non ha portato moderazione in Hamas, anzi, l’organizzazione terroristica ha utilizzato questa opportunità per armarsi e organizzarsi meglio, imprigionando anche dall’interno la popolazione palestinese nell’universo concentrazionario del regime. D’altra parte, non possono tacersi i rilievi contenuti nel rapporto della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui territori palestinesi del 7 giugno 2022, riguardante la politica di occupazione e di discriminazione socio economica della comunità palestinese da parte di Israele, delle violazioni della costruzione di nuovi insediamenti e della violenza dei coloni. Inoltre, la questione della capitale a Gerusalemme, decisa da Israele nel 1980, dopo l’annessione della parte est controllata dagli arabi nella guerra dei 6 giorni del 1967 e riconosciuta dal 2017 dagli Stati Uniti, ma non dalle Nazioni Unite e dall’UE, insieme al diritto al ritorno dei rifugiati arabi palestinesi del Nakbah (esodo) della guerra del 1948-1949 (oggi sono quasi 6 milioni) sempre negato da Israele, rendono l’idea del carattere unilaterale e aggressivo di alcune posizioni politiche della democrazia israeliana.

Il diritto all’autodifesa, all’esistenza e alla sete di giustizia di Israele sono sacrosanti e devono essere difesi e rispettati con forza da tutta la Comunità internazionale, ma Israele deve rispettare le risoluzioni della Nazioni Unite e il diritto internazionale. La de-escalation è possibile con atti unilaterali da parte della superiore democrazia israeliana, con concessioni importanti verso i nodi irrisolti della pace, dalla restituzione dei territori, a forme di esercizio del diritto al ritorno dei rifugiati, piuttosto che concessioni su Gerusalemme. Per quanto lunga nella sua costruzione e lontana nel tempo, questa ipotesi rimane l’unica alternativa ad eccidi periodici e sempre più sanguinosi. Anche gli storici Accordi di Camp David del 1978 che siglarono la pace con l’Egitto arrivarono dopo il trauma della guerra dello Yom Kippur del 1973.

*Docente di Storia dell’Europa e del Mediterraneo all’Università di Salerno e professore associato all’Università Mercatorum di storia delle Relazioni Internazionali 


Torna alle notizie in home