Il capitale disumano
Il capitale disumano
di TOMMASO CERNO
Come i due cavalli di Platone, le democrazie sono un carretto, ormai, tirato in direzioni diverse. Ed è da questo tiramolla che deriva quel senso di instabilità che sta entrando ogni giorno di più nella nostra vita. Il cavallo bianco è il Pil, che tira verso l’alto. Quello nero è il debito che invece punta dritto verso la Terra, là dove lo schianto sarebbe mortale. Per raddrizzare il convoglio, che nel secolo scorso prometteva ricchezza e progresso, crescita sociale e benessere, mentre oggi somiglia tanto a una stanza chiusa senza finestre dove l’aria per le famiglie italiane si fa sempre più pesante e rarefatta, serve che ogni decisione politica porti a qualcosa di pratico, prodotto, materia che diventa progetto e poi realtà, producendo lavoro e soldi che girano dentro l’economia reale.
Si chiama Pil, appunto, il risultato di questa che in tempi normali sarebbe la regola maestra di ogni Stato liberale basato sul lavoro, sul reddito e sulla sua redistribuzione nella società del capitale attraverso meccanismi di compensazioni e welfare che si reggono sulle tasse e sulle pensioni. Facendo di noi un capitale non più umano, anzi disumano. Scusate se mi sono dilungato su questo passaggio, ma è necessario. Perché ciò che dovrebbe essere normale è invece ormai un caso eccezionale. I governi, non solo quello italiano, sono costretti, oggi che sarebbe necessario produrre e produrre e ancora produrre, a costruire manovre a debito. Chiedendo all’Europa il permesso. E dando avena al cavallo nero che, zitto zitto, punta verso la terra.
Il problema è che questa non è una scelta ma una necessità, legata al fatto che l’ente regolatore dei trattati economici, coloro che devono certificare che le nostre finanze rispettino le regole, sono gli stessi che hanno generato le condizioni di vita estreme per l’economia reale in cui imprenditori, lavoratori e governo si trovano ad agire. Sono gli stessi, coloro che chiedono di rientrare con il debito, che alzano i tassi rendendolo più elevato. Sono gli stessi coloro che certificano i nostri sforzi, quelli che chiedono sforzi non previsti e che classificano come emergenza planetaria qualunque cosa vogliano, facendola sempre gravitare come costo nelle tasche di quei cittadini che dovrebbero poi sostenere lo sviluppo.
Il problema è che ci hanno fatto credere per anni che l’apparente labirinto senza uscita in cui sembriamo improvvisamente caduti ce lo fossimo creati noi con i nostri comportamenti. E invece oggi ci rendiamo conto che siamo alla vigilia di fenomeni che coinvolgeranno milioni di persone e che sono ormai già in atto, che dimostrano come dietro quelle scelte ci sia una regia. Una regia che sta costruendo un diverso equilibrio fra ricchi e poveri, che sta cambiando di fattole regole del capitalismo senza avere coinvolto in questa decisione né la politica, che la subisce, né tanto meno i cittadini che si sono fidati delle proprie istituzioni internazionali.
E così in Italia si parla di transizione energetica come un imperativo categorico per una società sviluppata ma non si dice una parola sul prezzo sociale che comporterà. Un prezzo che muterà non solo le condizioni economiche della classe media, già in ginocchio, ma come mostra l’inchiesta di Alessio Gallicola su cui oggi apriamo L’identità, cambierà per sempre il rapporto fra gli italiani, la proprietà e il credito. Dopo secoli di storia. Che diventeranno un ricordo lontano. Forse per i nostri figli poco più che una leggenda.
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