Iran: sarà impiccato Djalali, il ricercatore condannato a morte
Ma resta ancora uno spiraglio per la soluzione diplomatica
La minaccia di un’esecuzione come estrema arma per un intreccio diplomatico con i Paesi che hanno arrestato cittadini iraniani e che ormai, fuori dalle dichiarazioni ufficiali, sembra prendere la strada di nuove trattative segrete. Il ricercatore iraniano-svedese Ahmadreza Djalali, arrestato in Iran nel 2016, sarà giustiziato per impiccagione, al termine di un processo di revisione richiesto dalla sua difesa. Lo annuncia il portavoce della magistratura iraniana Massoud Setayeshi, che non fornisce notizie sulla data dell’esecuzione, inizialmente prevista per il 21 maggio scorso, lasciando campo anche ad un’auspicabile soluzione incruenta della vicenda, oggetto da tempo di numerosi appelli internazionali. Da più parti si attaccava il modello di “diplomazia degli ostaggi” attuata dall’Iran, che arresta cittadini con doppia nazionalità o stranieri, incarcerandoli con accuse inventate di spionaggio e quindi utilizzandoli politicamente per liberare fondi congelati all’estero o per scambiarli con cittadini iraniani incarcerati in altri Paesi.
Setayeshi esclude oggi l’ipotesi di un possibile scambio di Djalali, che ha doppia nazionalità (iraniana e svedese), con Hamid Nouri, un ex funzionario della magistratura iraniana recentemente processato in Svezia per il suo coinvolgimento nell’esecuzione di massa di dissidenti negli anni ’80 nelle carceri di Teheran. Ma è evidente, a leggere gli ultimi passaggi della vicenda, che essa sia connessa alla sorte di Nouri. “La magistratura iraniana, annunciando la sua intenzione di giustiziare Djalali, ha chiarito che si tratta di un ostaggio e che la sua vita viene utilizzata per influenzare la decisione giudiziaria in Svezia”, ha detto giorni fa Hadi Ghaemi, direttore del Centro per i diritti umani in Iran, un gruppo di difesa indipendente con sede a New York. E la conferma dell’indisponibilità di Teheran alla soluzione diplomatica arriva dall’esito infruttuoso del colloquio telefonico dei giorni scorsi tra i ministri degli Esteri dei due Paesi coinvolti.
Djalali, un medico di 50 anni, docente presso il Karolinska Institute di Stoccolma, era emigrato in Svezia nel 2009 per svolgervi un dottorato. Poi nel 2016, su invito di un’Università si era recato in Iran per partecipare a un seminario accademico ma era stato subito arrestato e successivamente, nell’ottobre 2017, condannato a morte e ad una multa di 200mila euro per corruzione sulla terra (“efsad-e fel-arz”), al termine di un processo davanti alla sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran, considerato da Amnesty International “gravemente iniquo”.
Secondo il verdetto, aveva lavorato come spia per Israele nel 2000, un’accusa mai giustificata da alcuna prova. In una lettera dell’agosto del 2017 scritta dalla prigione di Evin si ritrova un’ulteriore prova della teoria della “diplomazia degli ostaggi” iraniana, che vede Djalali nel ruolo di vittima designata. Vi si legge che già nel 2014 le autorità iraniane gli avevano chiesto di “collaborare con loro per identificare e raccogliere informazioni provenienti dagli Stati dell’Unione europea. La mia risposta è stata no. Ho detto loro che sono solo uno scienziato, non una spia”.
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