VajontS: troppi errori, uno spettacolo di Marco Paolini
Più del corpo, ci sarà la mente di un artista, l'”attore Marco Paolini” in Vajonts. La gestualità scarna delle azioni, che sembrano quasi scatti d’ira. I jeans e la maglietta, le polacchine ai piedi, la barba di due giorni di sempre. Un teatro di pancia, recitato con la logica dei fatti e la scenografia essenziale. Così Il racconto del Vajont è diventato uno dei monologhi più famosi e apprezzati del teatro di narrazione a vocazione civile. E lui, Marco Paolini, continua a dimenarsi in mezzo a quei numeri e a quelle testimonianze postume che avrebbero potuto salvare un piccolo paese di montagna. In piedi, davanti a migliaia di persone, centinaia di volte, dal 9 ottobre 1997, da quando ha portato in scena assieme a Gabriele Vacis per la prima volta il fantasmagorico racconto della tragedia in diretta nazionale sulla Rai. Tre ore filate, senza pubblicità, per ripercorrere una notte buia della storia d’Italia e dire a voce alta i nomi dei colpevoli.
Eppure non sono bastate tutte le repliche. Non sono bastati nemmeno i venticinque milioni di metri cubi di acqua che hanno scavalcato la diga. Ovvero la metà di quei cinquanta che alle 22.39 si sono sollevati dal lago artificiale dopo la frana del Monte Toc (“Non si poteva sapere a quale ora di quale giorno della settimana l’ultimo filo d’erba che la teneva su si sarebbe rotto, ma si capiva che era questione di poco”). Quattro minuti: il tempo di rimbalzare da una parte all’altra del bacino, scavalcare il muro di cemento più alto d’Europa e piombare su Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Spazzarli via, insieme a duemila vite. Non è bastata quell’enorme ecatombe annunciata a scongiurare successivi errori umani e responsabilità di calamità definite “naturali” per prassi linguistica, o per omertà. Ustica, il Petrolchimico, l’Aquila, Amatrice. Di Vajont ce ne sono stati, e ce ne saranno ancora. Per questo, a 60 anni dalla tragedia, l’opera teatrale acquisterà una “s”. Saranno i VajontS quelli che andranno in scena il prossimo 9 ottobre in contemporanea in tutta Italia. A dare il La sarà il Piccolo di Milano, dove Paolini reciterà in collegamento con altri 136 teatri. L’idea è quella di un canovaccio mobile, da piegare, annodare, stendere o riavvolgere a seconda dei vari allestimenti. Sarà una staffetta corale, con il testimone della storia da passarsi l’un l’altro, dal Trentino alla Sicilia. Per l’occasione, dietro a 20 narratori e 200 coristi, si staglierà un muro di cemento coperto di nomi e numeri.
“Serve riflettere sugli errori, più che sulle colpe” ragiona Paolini, che coordinerà tutti gli eventi. “C’è una complessità di storie da sondare. Le situazioni di fragilità idrogeologica dell’Italia, e le nuove problematiche legate alla siccità a cui la crisi climatica ci espone, richiedono anche al teatro e all’arte di occupare un ruolo civile. È questo il senso del coro che abbiamo messo in campo. Non vogliamo dare indicazioni politiche, o risposte tecniche, ma fare prevenzione civile, laddove la politica non ci riesce”.
E poi: difficile definirlo spettacolo. Quello di Paolini non è solo recitazione. E forse nemmeno una “orazione”, come dicono in molti. Il suo racconto del Vajont è un grido di rabbia, acceso dalla speranza e soffocato dal dolore. Una preghiera laica, per tutto quello che in passato è stato negato alla verità, e tutto ciò che in futuro verrà liquidato, ancora una volta, come errore.
Lo spettacolo a Torino, al Teatro Gobetti, in prima nazionale dal 5 al 9 ottobre. Il 9 ottobre in contemporanea in 136 teatri in tutta Italia.
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