Il sindacato perde i pezzi: il giallo degli iscritti
Sorpresa: i numeri dichiarati dai sindacati sugli iscritti non corrisponderebbero con quelli reali. Uno studio, apparso sul Corriere della Sera, smonta la narrazione secondo cui un lavoratore su tre sarebbe iscritto a una delle sigle della triplice. A inguaiare Cgil, Cisl e Uil (e gli altri sindacati minori) è uno studio della Copenhagen Business school. Tre ricercatori, Cyprien Batut, Usysse Lojkine e l’italiano Paolo Santini hanno confrontato i dati comunicati dai sindacati coi sondaggi sui lavoratori stessi. E le discrepanze sono tali da far sorgere più di un dubbio.
I ricercatori sono partiti dal dato dichiarato dal mondo della rappresentanza sindacale. Le sigle, dagli anni ’90 in poi, hanno sempre riferito che almeno un lavoratore su tre aveva una loro tessera in tasca. Un range percentuale, dichiarato, pari al 32-33%. Che faceva dell’Italia, tra le altre cose, uno dei Paesi occidentali (fatta eccezione per l’area scandinava) in cui l’adesione al sindacato restava tra le più alte. Ma lo studio della Copenhagen Business School, che invece è partita a ritroso e cioè ascoltando la voce dei lavoratori, rivela che gli iscritti non sarebbero più del 22-25%. Non uno su tre, bensì uno su quattro. Va da sé che si tratta di un ridimensionamento importantissimo che assottiglia, e di molto, la platea (vera) dei sindacati. Delle due l’una. O i sindacati hanno gonfiato i dati diffusi all’esterno oppure ci sono lavoratori che sono iscritti ma non lo sanno. O lo hanno dimenticato. E non è una banalità, nemmeno una provocazione. Alcuni studi più o meno recenti hanno dimostrato che se i numeri dei sindacati italiani reggono è anche perché offrono servizi utili. Su tutti, l’assistenza fiscale. Può essere che i numeri siano giusti, sia quelli comunicati dalle sigle che quelli riferiti dai lavoratori? Sì. Ma allora il problema sarebbe di un’altra natura. Se si è tesserati per un sindacato solo per accedere a servizi e agevolazioni, è ancora possibile parlare di rappresentanza di massa o di adesione consapevole a un mondo che, almeno in teoria, è più ampio delle quattro mura di un Caf?
Insomma, il problema del sindacato italiano è di comunicazione oppure sono in crisi anche loro, sono diventati dei tesserifici come già accaduto, a suo tempo, ai partiti? Anche in questo caso, non sarebbe un problema da poco. Soprattutto perché i partiti, che erano di massa solo qualche decennio fa, hanno imboccato una china discendente che li ha completamente snaturati. Non più luoghi della politica ma comitati elettorali permanenti a sostegno del leader di turno. Per il sindacato, fossero confermati i dubbi emersi dallo studio di Copenhagen Business School, quale futuro si prospetta? Il tema è serio. Anche perché, mai come in questo momento di tensioni sociali e di paura, mentre infuriano dibattiti che soltanto qualche anno fa, e soprattutto a sinistra, sarebbero apparsi quantomeno lunari, come quello sul se sia più efficace il salario minimo per legge o una contrattazione collettiva dei rapporti di lavoro, c’è bisogno del sindacato.
Torna alle notizie in home