La rivincita del jocker
La rivincita del jocker
di TOMMASO CERNO
E’ morto fra le braccia dello Stato, Matteo Messina Denaro. Ricongiungendosi alla sua famiglia. E riconoscendo pure la figlia che altrimenti non sarebbe stata sua. Una rivincita degna del Jocker di Batman. Solo che questo non è un film. E’ l’Italia reale. Dopo trent’anni di latitanza, a fare i soldi, quelli veri, miliardi di euro, e a spassarsela fra la Sicilia (dove è stato poi rintracciato, praticamente davanti agli occhi di tutti) e l’estero, dove andava e veniva a suo piacimento. E se è vero che nella tradizione mafiosa il boss per dichiarare la sua vittoria contro lo Stato deve morire nel suo letto, visti i tempi in cui viviamo, e visto che di carcere quell’assassino, criminale, capomafia, leggendario successore di Totò Riina in pratica ne ha fatto meno di un poveraccio che sbarca a Lampedusa e finisce nei Cpr, si può dire che abbia vinto la sua partita.
Già questa non sarebbe una bella notizia. Ma se si aggiunge che è molto probabile che se l’ha vinta è perché in questi tre decenni di impunità Matteo Messina Denaro fosse assistito da una parte dello Stato mentre l’altra parte lo cercava, c’è da rendersi conto che il finale di questa sciagurata esistenza del boss e di noi tutti è che un altro mafioso finisce nel Pantheon di Cosa Nostra. E ci finisce meglio dei suoi altisonanti predecessori Bernardo Provenzano e Riina stesso. Che erano stati arrestati davvero. E che sono morti da detenuti.
Con lui se ne va anche l’ipotesi che Matteo Messina Denaro non immaginasse di essere arrestato. Il che non significa che si sia costituito, ma che da un certo momento in poi, quando i medici gli hanno detto che stava per morire, ha esasperato la sua vita già pubblica. Ha abbassato anche quella poca guardia che aveva intorno. Fino alla scena che tutti abbiamo visto, quando entra in tenuta da arresto (il montone, che per un peracottaro come lui è simbolo di benessere e forza) in ospedale, al centro dell’inquadratura, come se stesse quasi recitando. E ripete due volte il suo nome, poco dopo, ai Carabinieri del Ros, scandito bene, per le telecamere di tutto il mondo. “L’ho già detto, sono Matteo Messina Denaro”. Sapeva bene che non avrebbe parlato. Nè tanto meno si sarebbe pentito. Ma che aveva il tempo di riportarsi intorno la famiglia. Figlia compresa. Trasformandola da un fantasma della latitanza, a una Messina Denaro vera e propria. Senza vederla. Non tanto, come ha detto, per come stava lui, ma perché la benedizione del Padre funziona meglio quando è ammantata da un po’ di mistero. Quando è intima. Segreta. Impronunciabile.
Quel che è certo è che se il boss ha lasciato che questo accadesse, ha anche sistemato alcune cose prima. E intatti abbiamo trovato di tutto nei suoi rifugi, tutta roba buona per un biografo, ma nulla di nulla di ciò che davvero interessava alle Procure, agli inquirenti, alla politica e a tutti gli italiani: nulla sui soldi, sulle società e sul business della mafia 2.0. Nulla sulla sua eredità. Nulla sui diari di Falcone. Nulla sui suoi predecessori. Nulla sulle stragi. Nulla che interessi. Nulla di nuovo. Nulla che segni una rete da parte dello Stato buona per dire che, sebbene con ritardo, eravamo arrivati alla verità. Serva da lezione. Ma non servirà.
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