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Mia nipote e quelle foto dell’asilo che Laura e Kata non vedranno mai

di Redazione -


Mia nipote e quelle foto dell’asilo che Laura e Kata non vedranno mai

di FRANCESCA ALBERGOTTI

Mia nipote Leonia di quattro anni ha ricominciato la scuola materna. L’ho vista partire, di spalle mi ha salutato con la mano aperta, indossava un completino rosa confetto (colore scelto da lei sottolineato da piedi sbattuti e urletti isterici e non davvero imposto da stereotipi di genere) e lo zaino troppo grande che le ciondolava sulle spalle. Sembrava abbastanza felice, e sorrideva fiduciosa mentre si incamminava verso la “scuola”.
Stamattina rivedrà i suoi compagni e giocheranno insieme, scarabocchierà con i pastelli a cera o creerà piccoli collage con la colla bianca e la forbice a punta tonda, tirerà fuori la merenda dalla gavetta decorata con Minnie e berrà il succo della borraccia con le stelline fluorescenti. Prenderà un morso da un bambino e magari anche lei spingerà qualcuno senza motivo, tanto per cominciare l’esplorazione della varietà delle reazioni umane di fronte alle ingiustizie. Insomma, più o meno quello che ognuno di noi ricorda aver fatto per passare il tempo all’asilo fino a che qualcuno non ci veniva finalmente a prendere. C’è però in atto un singolare rinnovamento rispetto alla noiosetta quotidianità della scuola materna. Le familiari aule con appesi alle pareti i disegni dei palmi dei bambini o il mutare stagionale del fogliame sugli alberi si sono trasformate in originali set fotografici, quando non addirittura cinematografici. Perché le maestre della materna fotografano e filmano ogni loro alunno con ossessiva regolarità. E con altrettanta tempestività le foto e i video vengono inviati a genitori impazienti, talvolta corredati di vocali Whatsapp per dare pedisseque quanto superflue interpretazioni sul materiale spedito. Un monitoraggio morboso che avrebbe una giustificazione solo se potesse servire a evitare i gravi casi, purtroppo ancora numerosi, di maltrattamenti sui bambini accaduti negli asili della nostra penisola, da Vanzago al nord, Corciano al centro, Fasano a Sud, isole comprese.

Giacché non pare che il fenomeno accenni a diminuire l’ossessivo diario di attività inviato alle famiglie si manifesta per ciò che è, un cutaneo e inefficace tentativo di arginare una ormai persecutoria smania di controllo. La frenetica serie di fotogrammi diventa il balsamo per mitigare le ansie provocate da quella iperprotettività genitoriale che ahimè presto, molto presto, si svelerà superflua: appena i piccoli bambini, dotati di smartphone (per poter essere sempre tracciati e rintracciati dai genitori) diventeranno abili registi di sé stessi e condivideranno su Tik Tok una challenge lanciata ai compagni di banco su chi riesce a bere più Marsala rubato dalla credenza della nonna, in diretta il sabato pomeriggio dalla loro cameretta con il letto a ponte. Mia figlia mi ha chiesto se volessi essere inserita nel “gruppo” per ricevere in tempo reale le foto e i video, io ho rifiutato, gentilmente ma con fermezza, per non offenderla. Ho preferito non dirle che se disgraziatamente una delle maestre di Leonia dovesse essere un’esaurita pazza criminale che si sfoga malmenando i bambini non sarebbe comunque così matta da condividere il video delle sevizie, anzi starebbe ben attenta a agire di nascosto e non farsi riprendere. E poi a me, il trillo assillante che preannuncia la foto con la didascalia – ecco Leonia che mangia una mela di agricoltura biologica certificata! – l’ansia la fa salire, altro che placarla.
C’è un’altra bambina che oggi sarebbe dovuta essere all’asilo, si chiamava Laura. Domenica scorsa era andata a fare una gita con mamma papà e fratello dalle parti dell’aeroporto di Caselle a Torino. Sopra la loro Ford Fiesta sfrecciavano gli MB-339 delle Frecce tricolore fino a che un aereo, pare a causa di un nefasto stormo di uccelli entrato nel motore, non si è schiantato contro la fiancata laterale dell’auto trasformandola in una palla di fuoco. Il papà di Laura non si dà pace per non averla potuta salvare, non è riuscito a sganciare le maledette cinghie del seggiolino infuocate, montate con il proposito di salvare la vita ai bambini. Laura non andrà più all’asilo, e in questo caso le fotografie scattate gli anni scorsi dalle sue maestre si trasformano in preziosi cimeli, per chiunque la vorrà ricordare.
A noi non rimane che quel senso di spaventosa incredulità di fronte a una sorte così malvagia e ingiusta, quei “perché?” al quale non ci sono risposte, se non la rassegnazione e un desolante senso di impotenza.

C’è una terza bambina che oggi sarebbe dovuta andare all’asilo ma non ci è andata. Non l’ho mai conosciuta anche se viveva non molto lontano dalla mia città. Ora so il suo nome, Kata, ma sono consapevole che se anche fossi andata a Firenze per i miei soliti giretti turistico-culturali non l’avrei potuta incontrare perché Kata abitava in una zona distante dai miei asettici eleganti itinerari “Via Tuornabuoni – palazzo Strozzi – via della Vigna – lungarno Corsini – piazza della Repubblica”. Lei viveva nell’ex albergo Astor, in via Maragliano, un edificio occupato dal 2020 da una variegata umanità, a pochi passi dall’università di Novoli. Viveva lì insieme alla sua mamma e a suo fratello, condividendo stanze comuni, bagno e vita quotidiana con altri bambini e altre famiglie.
Anche a lei deve piacere il rosa, come a mia nipote; infatti, il video che la riprende fuori dall’Astor il 10 Giugno indossa proprio una maglietta rosa. Le riprese non sono state fatte da una maestra per essere inviate ai genitori ansiosi, ma sono state recuperate da una telecamera di sicurezza collocata sul muro di una gioielleria, installata non per filmare le bambine piuttosto per schivare le rapine, accidentalmente diventata l’ultimo strumento attraverso il quale intravedere Kata. Forse di Kata non abbiamo tante foto perché all’asilo non ci è mai andata. Lei fa parte di quella schiera di “bambini invisibili” che popolano le nostre periferie e centri storici in case popolari occupate, vecchi alberghi fatiscenti, cascine abbandonate. Sono creaturine silenziose che fanno chiasso solo se scompaiono e diventano irresponsabili e accattivanti protagoniste di una viscida cronaca nazionale. Nessuno le va a intervistare, anche perché spesso non conoscono neppure la nostra lingua, trascorrono le giornate gingillandosi insieme, fino al momento in cui alcune di loro saranno abbastanza cresciute per organizzarsi in feroci baby gang. Talvolta una volenterosa, intrepida assistente sociale riesce a scovarne una e cerca di prendersene cura, fra le resistenze della famiglia d’origine e una burocrazia tentacolare e miope, con Kata non ha fatto in tempo. Kata è sparita e di lei rimane solo l’ultimo fotogramma sgranato in cui sale delle scale dopo essersi allontanata da un gruppo di bambini più grandi di lei con i quali era scesa in strada. È sola, con una mano si copre gli occhi dal sole, poi improvvisamente cambia idea e torna giù per le scale. Da allora nessuno sa dove sia Kataleya, detta Kata.
Io spero che Kata possa un giorno andare all’asilo, con un completino rosa proprio come quello di mia nipote, e che le maestre fotografino anche lei, mentre mangia la mela biologica.


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