Editoriale

Un paese a brandizzi

di Tommaso Cerno -


Un paese a brandizzi

di TOMMASO CERNO

Non me la sento di prendere in giro gli italiani facendo l’indignato e tantomeno il sorpreso. Questo è un Paese pieno di Brandizzo. Sui binari. Sulle impalcature. Nei cantieri. E soprattutto questo è un Paese dove le procedure formali si chiamano formali proprio perché molto spesso differiscono dalla sostanza. Siamo un Paese scritto nelle carte. Lo erano le procedure che hanno portato alla morte dei cinque operai sui binari che stavano riparando, travolti dal treno, lo è il benessere che avrebbe portato al paese il Superbonus, quando invece sta generando una voragine di decine e decine di miliardi che aumentano tutti i giorni. C’è sempre qualcosa di scritto che ci racconta una favola e poi arriva la realtà che ci riporta a terra. Sognare è proprio il contrario del meccanismo su cui procede dritto per la sua strada, proprio come quel treno lanciato a 160 km orari, sulle rotaie un Paese dove la realtà prende una forma più bella di quella che avevamo immaginato. Quell’Italia delle idee che diventano fatti e che oggi ci sembra così lontana dalla quotidianità, dove i fatti sembrano apparirci davanti per fare il punto della situazione, per ricordarci che fra le nostre aspettative e certezze e quello che davvero siamo in grado di produrre lo spazio non solo è ancora molto ma aumenta giorno dopo giorno. È un po’ lo stesso meccanismo che da anni rende la politica così invisa agli elettori da preferire rimanere a casa nell’unico giorno in cui la propria voce potrebbe avere un che di significato, il giorno delle elezioni. Le promesse delle campagne che non diventano mai realtà ci danno l’impressione che Brandizzo sia una grande metafora di come siamo diventati. E non un’accezione come dovrebbe essere in un Paese civile. Ci sarà un’inchiesta e forse si arriverà a una verità processuale, ma non basterà di certo a farci uscire da questa trappola in cui siamo caduti. E che ogni giorno ci presenta il conto. Abbiamo bisogno di dirci con chiarezza che cosa facciamo davvero e che cosa diciamo di saper fare bene. Perché se non ci dedichiamo a questo inventario della realtà in cui viviamo continueremo a darci la colpa per tutto quello che ci esplode in mano. E continueremo a nascondere sotto il tappeto dell’ipocrisia quello che non siamo capaci di fare. Così come la precarizzazione del lavoro ha reso difficili i controlli e ha reso più agili le scorciatoie, mortali troppe volte ancora nelle statistiche italiane dove ogni giorno muoiono tre persone nel luogo che dovrebbe invece garantire loro il guadagno e il progresso, allo stesso modo abbiamo perso il controllo sulle migrazioni e ci siamo trasformati in un Paese che pur di dire che accoglie ha messo in pericolo la vita di chi scappa dalla sua terra per cercare qui un futuro che non siamo in grado di dargli, e abbiamo messo in pericolo i cittadini, perché nelle nostre città come dimostrano il caso di Kata a Firenze o il degrado delle stazioni delle grandi città e delle periferie urbane, non siamo in grado di garantire la sicurezza che promettiamo. E il meccanismo è semplice, se lo Stato non c’è ci pensa qualcun altro a occuparsi di chi non ha un luogo dove stare e qualcosa da fare. Ora stiamo ragionando di togliere il telefonino ai ragazzini che compiono reati. E di processare i minorenni come fossero adulti. Ma anche questo è un segno che abbiamo perso il controllo. E che pensiamo davvero che la colpa sia della tecnologia, non del vuoto che si è creato dentro le famiglie italiane che non sono più in grado di tracciare un futuro per i propri figli, e sono sempre di più, dentro una scuola dove un docente è sottopagato e classificato nell’immaginario collettivo come uno sfruttato, non certo come il simbolo di un’autorità da prendere ad esempio. E come è sotto gli occhi di tutti che per riportare lo Stato a Caivano, a Tor Bella Monaca e nei quartieri degradati in mano alla criminalità da anni è servito allo stupro di gruppo di due ragazzine. Solo questo ha risvegliato la coscienza del Paese e ha mosso lo Stato. Perché nel Paese delle carte, quello dove la realtà è sempre diversa da come la racconti, diventa una questione di forza dimostrare la tua ragione. E quando uno Stato è costretto a usare la forza per ripristinare la normalità significa che da qualche parte, da molto tempo, ha fallito. E che se non vuole che anche quella forza residua che ha si esaurisca in un infinità di azioni di emergenza che messe tutte insieme non ripristinano la normalità ma accentuano solo lo stato di eccezione in cui stiamo vivendo, ha bisogno, insieme all’inflessibilità necessaria in questo momento, di ricostruire un tessuto sociale che sia in grado di controllarsi ed equilibrarsi da solo.


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