Sperare al centro
Non è un caso che a intitolarsi così sia un estremista del centro, quel Matteo Renzi che trova collocazione dove gli altri non ci sono. Come fece anche da leader della sinistra italiana quando di fronte a un consenso oceanico del Paese scelse la via solitaria e cadde in pochi mesi. Perché c’è una cosa di quella parola che come una maledizione non riesce a staccarsi dal suo amuleto.
Che il centro nella storia di questo Paese è sempre corrisposto a governo. Non sono moderati i benpensanti, in Italia si definiscono così solo i potenti. Non esiste qualcosa in mezzo a due contendenti che possa volare se la sua rotta non è Palazzo Chigi, o comunque una traiettoria concordata con chi sta dentro la stanza dei bottoni. E siccome Renzi è tutto fuorché uno di primo pelo, quello che stiamo per assistere è un’anteprima di campagna elettorale in cui l’ex rottamatore cercherà di imparare il mestiere opposto. E di costruire una rete per far cascare dentro il cesto quelli che da qui a quando la campagna elettorale ufficiale sarà cominciata, in vista delle elezioni europee, si sentiranno abbandonati.
La prima vittima di questa operazione, come si capisce dal tenore delle dichiarazioni di queste ore, è Antonio Tajani. Perché Renzi è convinto che davvero gli elettori di Forza Italia siano dei moderati, o almeno lo diventino di fronte a una Giorgia Meloni che secondo la classificazione antica della politica italiana proviene da una destra che non ha speranza di essere maggioritaria da sola. Ed è qui che la teoria comincia già a fare acqua. Perché Giorgia Meloni contiene in sé quell’elemento naturale, quella calamita ontologica, che si chiama potere di governo, che è l’unica esca a cui abbocchino i presunti moderati che Renzi va a cercare. Ed è per questo che riforme istituzionali, l’idea di una elezione diretta che per quanto alla lontana possa somigliare a quella riforma del Parlamento che fece cadere il governo di Matteo, vittima di un referendum in cui si è auto immolato, possono sembrare sufficienti a convincere i più scettici del melonismo, ma che a sinistra non voterebbero mai, che sta nascendo una nuova casa per accoglierli.
Ma si fa i conti senza l’oste. E l’oste in questo caso è Silvio Berlusconi. Perché se c’è una cosa che rimane del messaggio culturale del Cavaliere, al di fuori di quel dibattito che ha diviso il Paese per 30 anni sulla sua natura e sulla sua figura, è la parola lealtà. Tutta la vita di Silvio Berlusconi, proprio quella che i suoi avversari hanno agitato come uno spettro contro di lui, si basa su strette di mano, rapporti personali di fiducia e di amicizia, la stima incondizionata per chi svolge il proprio lavoro senza mettere in discussione la casa di cui fa parte, l’appartenenza a un mondo che ne ha per tutti nel momento in cui si può festeggiare e che chiede il silenzio di tutti nel momento in cui non c’è nulla per cui ridere. Ed è questa la forza di Antonio Tajani. Una forza che Renzi fatica a pesare, perché molto diversa dalla sua indole e opposta a quella del Cavaliere. Ma Tajani rappresenta proprio quel patto fondativo non solo di Forza Italia ma di tutta la vita di Berlusconi. Avere una sola parola e basterà agitare questo spettro, quello del tradimento post mortem del fondatore perché chi è rimasto fedele a Forza Italia anche quando sembrava scomparire scelga il centro-destra, Qualunque sia il suo leader, come unico habitat possibile alle elezioni europee.
Non parliamo della sinistra, che sta addirittura costruendo un referendum contro se stessa, cioè contro quel Jobs Act votato con grandi applausi proprio dal Partito Democratico ma che proprio nel nome della discontinuità con quello che oggi è il nemico ha deciso di ergerlo a bandiera da ammainare. Chiuso fra queste due forze centrifughe il centro di Renzi rischia di essere soltanto un brand. E per averlo capito perfino Calenda, che gli ha augurato buona fortuna, significa che chi davvero oggi sta intorno all’ex rottamatore è qualche figura che ha il solito interesse personale a finire in quella lista lì, sbrodolando grandi discorsi sulla Democrazia Cristiana e su un Paese che non si sarebbe mai mosso in questo secolo dalle sue posizioni originali. Con una grande bugia comoda solo a chi vuole stare là dentro.
Ed ecco che si apre il dibattito surreale sullo sbarramento al 3% delle liste proporzionali per le europee. All’apparenza un favore ai piccoli partiti, in realtà il modo più diabolico perché non avvenga nulla di diverso da quanto i due grandi partiti vogliono. Fratelli d’Italia hanno come obbiettivo alle Europee confermarsi il primo partito nel Paese e il Pd di Elly Schlein ha come obiettivo raggiungere il 25 per cento, staccare di almeno 10 punti tutti gli altri partiti di opposizione, e tornare al centro della scena come elemento aggregante per la costruzione di un’unica possibile alternativa al centro-destra di Giorgio Meloni.
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