Ciao Carletto Mazzone, ultima icona del calcio romantico
L’ultimo amico va via: Carletto Mazzone si congeda dal mondo a 86 anni e 795 panchine sulle spalle. Il veterano del pallone italiano. Una vita per il calcio: sessant’anni spesi prima da sfortunato calciatore, costretto a smettere a causa di un brutto infortunio, e poi da longevo allenatore che, dalla provincia ha bussato più e più volte alle porte del Paradiso del football.
Dici Carletto Mazzone e ti vengono in mente i nomi, i volti, i simboli dell’Italia pallonara. Un album di figurine, tra campioni allenati e presidenti incontrati, che nessuno può vantare. Un viaggio lunghissimo che è iniziato ad Ascoli, alla corte di Costantino Rozzi. Il presidentissimo coi calzini rossi che ha portato i bianconeri marchigiani a diventare una presenza costante della massima serie negli anni ’80. Qui Mazzone s’inventò, tra le altre cose, il primo calciatore africano di sempre in Serie A. François Zahoui, detto Zigulì. Più che un campione, un’icona pop. Che lui, Mazzone, teneva quasi sempre in panchina: “Perché solo il giovedì ci fai vedere Zigulì?”, gli cantavano al mister i supporters ascolani. Al Catanzaro, altra habitué della A tra gli anni ’70 e ‘80, Carletto Mazzone era diventato er sor Magara. Accadde quando pure Rino Marchesi ammise che Massimo Palanca (quello che segnava direttamente da calcio d’angolo, ricordate?) e compagni (tra cui Leonardo Menichini che diventerà il suo storico “secondo”) avrebbero potuto vincere contro la Juventus. “Magara!”, esclamò, con l’ingenuità schietta di chi viene dalla provincia con la voglia di fare sul serio, di stupire pur restando coi piedi per terra. Come quando, in sella al Cagliari degli anni ’90, quello di Lulù Oliveira e Roberto Muzzi, fece rivivere alla Sardegna l’ebbrezza del calcio d’altri tempi, guidando la squadra fino alle semifinali di Coppa Uefa.
Ma la storia di Mazzone è piena di campioni. Veri. Di gente che (anche) grazie a lui è diventata un pezzo dell’immaginario collettivo, anche oltre il calcio. Francesco Totti, per esempio, è stato il frutto più dolce della sua esperienza alla guida della Roma, la squadra del cuore. Lo ha lanciato lui, Carlo Mazzone, facendolo esordire giusto trent’anni fa in A. Era il 28 marzo del 1993, i giallorossi giocavano a Brescia. Lì nacque il mito. Ma Mazzone non sapeva, allora, che Brescia avrebbe rappresentato un’altra tappa, decisiva, della sua carriera. E non solo. In Lombardia, con le rondinelle, Carletto Mazzone ebbe la ventura di trovarsi in rosa il campione che nessuno voleva: Roberto Baggio. Troppo ingombrante, troppo talento, impossibile da ingabbiare negli schemi tattici e di turnover. A Brescia, Roberto Baggio vivrà la stagione finale da calciatore, la più esaltante, condita dalla rincorsa (poi frustrata dal Trap) al mondiale 2002, dopo l’infortunio al legamento crociato anteriore. Una squadra in cui, oltre a Baggio, Mazzone si ritrovò a gestire Pep Guardiola, che diventerà il re degli allenatori capace di vincere tutto prima a Barcellona e poi al Manchester City e che pubblicamente gli riconoscerà di aver avuto un ruolo importante nella sua formazione. E poi due giovani talenti, all’epoca, ancora acerbi. Luca Toni e Andrea Pirlo. A cui Mazzone, pur di dargli lo spazio che meritava, tolse la “10” intoccabile di Baggio e consegnò la 4 del regista arretrato. Creando un campione irripetibile. Di quella stagione c’è un’istantanea: la sua folle corsa sotto la curva degli ultrà dell’Atalanta, a stento trattenuto da Menichini e dagli altri membri della panchina. Gliela aveva giurata: se il Brescia, sotto di tre gol, avesse pareggiato, gliela avrebbe fatta vedere lui. E lo fece, eccome. Correndo, a perdifiato, con la gioia di chi, pur essendo partito in netto svantaggio, ce l’ha fatta a mostrare al mondo il suo valore.
Torna alle notizie in home