di EDOARDO GREBLO E LUCA TADDIO
Se valutiamo il fenomeno in una prospettiva di lungo periodo, il cambiamento climatico costituisce un problema esistenziale per la nostra specie. Sul breve periodo, esso rappresenta una minaccia esistenziale per la democrazia. Le regole che guidano i processi decisionali di tipo democratico non sembrano sempre, infatti, in grado di reagire in modo tempestivo e coerente alla sfida che cambiamento climatico pone. È facile osservare che persino gli interessi primari dell’umanità intera finiscono spesso per passare in secondo piano quando i tagli alle emissioni risultano indigesti ad alcuni importanti settori industriali. E a cosa serve, allora, un sistema politico che non è in grado di garantire la sopravvivenza degli esseri umani? Non sono poi così rari, in effetti, coloro che, di fronte alle distruzioni in atto dell’ambiente e alle previsioni infauste sul futuro del nostro pianeta invocano un eco-autoritarismo illuminato, una sorta di dittatura ecologica capace di scoraggiare i comportamenti anti-ambientali anche attraverso misure autoritarie o illiberali. Come è avvenuto in occasione della pandemia di COVID-19, i sostenitori di un esercizio autoritario degli obblighi di protezione sociale vedono nella crisi climatica un’opportunità per dimostrare la necessità di far emergere un centro decisionale forte. Il cosiddetto eco-autoritarismo trova così sostegno in movimenti disponibili a sospendere le regole del gioco democratico, perché solo così i governi sarebbero in condizione di imporre provvedimenti a salvaguardia dell’ambiente anche se non fanno breccia nell’opinione pubblica e risultano spesso impopolari. I tempi imposti dalle procedure stabilite sarebbero, cioè, talmente fuori tempo massimo rispetto all’urgenza dei problemi, da rendere necessario introdurre forme di potere quasi del tutto libere nel loro potere decisionale, le uniche in grado di affrontare i problemi di azione collettiva globale in generale, e il cambiamento climatico in particolare. In effetti, le pratiche amministrative e istituzionali caratteristiche della democrazia non sono immuni da alcune difficoltà quando si tratta di misurarsi con problemi di questa portata. Anzitutto, la breve durata dei cicli elettorali fa sì che sia estremamente difficile per i governi imporre cambiamenti su larga scala all’elettorato dal cui voto dipendono, dal momento che le decisioni da assumere avranno un impatto che verrà avvertito (non solo, ma soprattutto) dalle generazioni future. In secondo luogo, l’unità territoriale rilevante della democrazia è lo Stato-nazione, e le questioni che potenzialmente comportano conseguenze vitali per milioni di persone che vivono al di là delle frontiere non riguardano la responsabilità delle decisioni nazionali. Inoltre, il processo democratico premia i gruppi di interesse piccoli e bene organizzati, ritardando così l’attuazione e l’efficacia della fornitura di beni pubblici. Infine, i governi che rispondono a un’opinione pubblica democratica spesso cercano di evitare di conformarsi a decisioni multilaterali vincolanti, se ciò indebolisce il loro rapporto con il proprio elettorato. Sono preoccupazioni come queste ad avere indotto gli eco-autoritari a nutrire un certo scetticismo sulla capacità delle forme democratiche di governo di dare avvio a politiche finalizzate alla sostenibilità e al rispetto dell’ambiente. In realtà, le democrazie dispongono di risorse politiche per affrontare il cambiamento climatico che non trovano analogo riscontro nei regimi autoritari. E ciò per varie ragioni. Esse hanno innanzitutto opportunità di accesso alle conoscenze e alle informazioni senza le strozzature imposte dai regimi autoritari alla libera circolazione dei saperi, nonché garantiscono una maggiore trasparenza nelle procedure decisionali. Incoraggiano il progresso della ricerca scientifica, alla quale dobbiamo la nostra consapevolezza circa i pericoli che minacciano la stabilità della biosfera inaugurata con l’inizio dell’Olocene. Gli scienziati e gli esperti in materia sono liberi di impegnarsi nella ricerca e di dedicarsi al solo confronto che conta in questo campo, che è quello di far valutare le proprie tesi dagli altri studiosi, di spostarsi da un Paese all’altro per accumulare nuove conoscenze e metterle alla prova. Questi fattori rendono più probabile che le questioni ambientali vengano identificate e inserite nell’agenda politica e affrontate in base ad adeguate misure di rischio. Inoltre, i cittadini interessati possono influenzare i risultati politici non solo depositando il loro voto nelle urne elettorali, ma anche attraverso i gruppi di pressione, i movimenti sociali e la libera stampa – opportunità precluse ai cittadini delle autocrazie. La vitalità della società civile serve anche a informare il pubblico, e a spronarlo ad agire da ‘guardiano’ nei confronti delle agenzie pubbliche, cioè a esercitare forme pacifiche di pressione sui governi. Non è, quindi, la democrazia a essere il problema. Il problema consiste piuttosto nel fatto che è l’orizzonte nazionale a costituire lo sguardo ultimo dei decisori politici, quando invece sta diventando sempre più evidente che la crisi ambientale legata all’avvio dell’Antropocene è una sfida globale. E che è proprio a livello globale che vanno trovate le soluzioni democratiche, per esempio attraverso una governance sovranazionale che equilibri gli interessi anche divergenti dei vari Paesi, senza ovviamente dimenticare il livello locale, dove molto può essere fatto per introdurre politiche finalizzate alla sostenibilità e al rispetto dell’ambiente.