Delitto Antonella Di Veroli: la misteriosa telefonata che riapre il caso
Un bossolo mai esaminato e una misteriosa telefonata potrebbero riaprire il cold case della “donna nell’armadio”: un delitto irrisolto da quasi trent’anni quello di Antonella Di Veroli, una consulente del lavoro di 47 anni di Monte Sacro, trovata cadavere nell’armadio della sua casa romana il 12 aprile 1984.
Antonella fu colpita in testa con due proiettili calibro 6,35 millimetri sparati con una pistola da taschino da un assassino che probabilmente conosceva la vittima e che, dopo averle sparato, l’ha sigillata esanime nell’armadio, dove la commercialista è morta per asfissia. Per il delitto fu incriminato, e assolto in tutti e tre i gradi di giudizio, l’ex amante della donna, il fotografo Vittorio Biffani, scagionato per un clamoroso errore nelle analisi del guanto di paraffina, effettuate con approssimazione da un investigatore alle prime armi, che con la sua inesperienza ha vanificato qualsiasi tentativo di collegare i sospettati all’omicidio. E quella non sarebbe l’unica svista investigativa nel giallo della donna nell’armadio. Perché è emerso solo adesso, grazie agli approfondimenti di due giornalisti che negli ultimi due anni hanno setacciato il fascicolo Di Veroli, che tra i reperti non è mai stato analizzato un bossolo raccolto dalla scena del crimine, un reperto che qualora venisse riaperta l’indagine, potrebbe svelare nuovi scenari e collegare il proiettile alla pistola con cui è stata ammazzata Antonella.
L’arma del delitto non è mai stata ritrovata, una pistola da collezione già allora datata e arrugginita. Inoltre sul reperto potrebbero esserci ancora tracce di dna riconducibili al killer della donna. A svelare il particolare sono stati i cronisti Flavio Maria Tassotti e Diletta Riccelli, i quali stanno tentando di far riaprire il caso alla Procura di Roma, grazie all’appoggio della deputata pentastellata Stefania Ascari, avvocato che già nella scorsa legislatura si è distinta per alcune istruttorie sulla strage di Ponticelli e sul delitto di via Poma in commissione Antimafia. A chiedere a gran voce un’imminente inchiesta e nuove analisi sui reperti soprattutto Carla Di Veroli, la sorella di Antonella che, per trent’anni, non si è mai arresa nella ricerca della verità. Fu Carla a scoprire il corpo senza vita di sua sorella, svanita nel nulla dalla sera del 10 aprile 1984, dopo una giornata passata con un’anima a Roma. Quella sera, intorno alle 22, Antonella chiamò per l’ultima volta sua madre. Poi il silenzio. Il giorno dopo, infatti, la 47enne non si era presentata al lavoro e non rispondeva alle insistenti telefonate. Così, allarmata, la sera sua sorella si era recata nell’appartamento di Monte Sacro, insieme al marito. Nell’abitazione, però, la commercialista non c’era. Eppure qualcosa di grave doveva essere successo, perché Antonella non era mai sparita con la sua famiglia, né si era assentata dal lavoro senza avvisare.
Il giorno successivo dunque, il 12 aprile, moglie e marito erano tornati nella casa per un nuovo sopralluogo, accompagnati dall’ex amante e socio di Antonella, Umberto Nardinocchi, e da un amico. Fu allora che si accorsero che un’anta dell’armadio era stata sigillata con del mastice. Da lì venne fuori l’orrore: sepolto sotto un cumulo di vestiti c’era il corpo di Antonella. Secondo gli inquirenti, la commercialista avrebbe aperto la porta al suo assassino, quindi lo conosceva, e la morte sarebbe avvenuta intorno all’una di notte.
Poco dopo quell’orario, più o meno all’1.30, dalla casa della donna era stata fatta una telefonata verso una compagnia di taxi ma, ha rivelato ora lo studio delle carte del fascicolo, non sono mai stati effettuati approfondimenti per individuare il radiotaxi né il tassista che potrebbe aver preso a bordo l’assassino. L’unica pista investigativa che fu seguita all’epoca riguardava la vita privata della commercialista e i sospetti si concentrarono su Nardinocchi e Biffani, sottoposti al test della polvere da sparo ed entrambi risultati positivi.
Ma mentre Nardinocchi aveva un alibi ritenuto altamente attendibile, la posizione di Biffani risultava alquanto controversa. Il fotografo era sposato e, dopo aver ricevuto un prestito di 42 milioni di lire dalla vittima, aveva lasciato Antonella perché la moglie, scoperta la relazione extraconiugale, aveva cominciato a telefonare ogni giorno alla Di Veroli. Biffani, inoltre, non sapeva spiegare come i residui di polvere da sparo fossero stati rilevati addosso a lui. Finito a processo, in secondo grado venne alla luce il clamoroso errore: i test dello stub erano stati scambiati, rendendo di fatto impossibile identificare chi dei due fosse realmente l’unico positivo all’esame. E quando anche in Cassazione arrivò l’assoluzione per il fotografo, sul caso calò il sipario. Fino ad oggi, con i nuovi elementi che potrebbero dare nuova linfa alle indagini e appurare anche questioni non chiarite all’epoca, come l’ipotesi che Antonella fosse vittima, nel periodo del delitto, di violenza domestica. Alcune testimonianze agli atti, infatti, raccontano che la commercialista indossava un collare ortopedico circa un mese prima della morte.Tessere di un puzzle che, unite alle analisi scientifiche sul bossolo, potrebbero portare a risolvere il cold case, dando un nome all’assassino e ricostruendo anche il movente, È più di un sospetto, d’altronde, che su quel bossolo possa essere rimasto del dna, poiché dei piccoli frammenti di ferro trovati nel cuscino della vittima raccontano che l’assassino ha maneggiato i proiettili dell’arma da taschino con cui ha ucciso la sua preda.
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