Lo strano fascino della diga: il racconto di Luca Rota
Sono cinquecentotrenta solo in Italia. Muri ciclopici, quasi ecomostri impattanti sulla natura alpina del nostro Paese, dalla materialità estrema. Dovrebbero suscitare repulsione e invece, da decenni, producono una fascinazione il cui mistero risiede nella relazione tra la presenza degli esseri umani e luoghi un tempo incontaminati. Così Luca Rota, autore del libro pubblicato da Fusta Editore “Il miracolo delle dighe – Breve storia di una emblematica relazione tra uomini e montagne”, presenta un’opera che nasce dal suo continuo vagabondaggio su Alpi e Prealpi italiane. Un viaggio affascinante, alla fine, dal punto di vista autobiografico ed emozionale. Un itinerario che segue le vallate alpine alla scoperta delle possenti dighe che sono state costruite dalla fine dell’Ottocento ad oggi.
La diga – ci racconta – come punto di osservazione privilegiata di quello che è un miracolo. Perché le dighe sono i segni fondamentali dell’alfabeto storicizzato della civiltà degli uomini”.
Ma il libro è anche una guida ricca di immagini fotografiche a valli e spazi alpini, ove sono nati “paesaggi idroelettrici” caratterizzati da capolavori ingegneristici che, nonostante il loro impatto ambientale che tuttora fa discutere, destano ammirazione e attrattiva, tanto che molti dei maggiori sbarramenti idroelettrici alpini sono diventati mete turistiche consolidate, con migliaia di visitatori all’anno. Un risultato raggiunto anche grazie alla particolare relazione culturale che hanno saputo intessere con i territori montani, persino evocando suggestioni artistiche e filosofiche.
Il libro, precisa ancora Rota, “parla di dighe ma anche no, per come in realtà racconta molte altre cose. E non parla nemmeno di energia idroelettrica in senso “politico”, a favore o contro, nonostante varie pagine su questo aspetto soprattutto in chiave presente e futura”.
Pure se, ammette, è infine atto politico nel senso pieno del termine, “la narrazione dei paesaggi alpini, perché la nostra relazione con i territori, da abitanti stanziali o visitatori occasionali, e dunque la partecipazione all’elaborazione dei loro paesaggi – che i giganteschi muri delle dighe rendono così evidente – è politica. È la relazione con il mondo nel quale viviamo e che sfruttiamo o tuteliamo, è appropriazione identitaria culturale, è inscrizione sul territorio come sulle pagine d’un libro della nostra storia, attraverso i segni che vi lasciamo. Tra i quali la diga, uno dei più emblematici, per le tante antinomie che custodisce”.
“Un passato che (non) sarà futuro?”, si chiede. E risponde pure alla possibile contestazione di un suo eventuale intento elegiaco per ogni “muro di cemento piazzato tra i fianchi delle montagne, che si tiene dietro una gran massa d’acqua come fosse un lacustre sospiro vitale”. Se elegia c’è, è per la “necessaria, imprenscindibile armonia che deve caratterizzare la presenza dell’uomo in natura”. E quindi avvisa: nessuna accelerazione economica ed ecologica sarà permessa, per nuovi invasi.
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