Le rinnovabili e il Ritardometro dell’Italia frenata. Elettricità Futura: troppi paletti nel decreto per le aree idonee
Se il mondo della politica già si sente in vacanza, non va al mare quello dell’industria. Per le rinnovabili – tema sul quale il governo Meloni ribadisce una convinta una manovra – scende in campo Elettricità Futura, associazione della filiera dell’elettrico che conta il 70% del mercato. Lo fa con una lettera che il suo presidente Agostino Re Rebaudengo ha inviato ai ministri Gilberto Pichetto Fratin, Gennaro Sangiuliano e Francesco Lollobrigida sulle gravi criticità del Decreto ministeriale per le aree idonee, il cui esito è atteso da oltre 18 mesi (ora è fermo all’esame della Conferenza unificata). Mentre il Ritardometro del blog di Re Rebaudengo fa scorrere i giorni: già 416 quelli trascorsi dal giugno 2022, la scadenza per questo Decreto e per le nuove aste delle rinnovabili.
“Se il decreto sulle aree idonee resta nella versione attuale – ha spiegato Re Rebaudengo a Il Sole 24 Ore – sarà impossibile lo sviluppo degli impianti rinnovabili. La definizione di aree idonee serve a ridurre a un terzo i tempi dei permessi in aree del paese predefinite. Con i criteri individuati, invece, per gli operatori sarà paradossalmente più conveniente andare a investire direttamente nelle aree non idonee”.
Da Elettricità Futura, insomma, la chiara preoccupazione per “paletti troppo stringenti, come la possibilità di utilizzare solo il 10% di un terreno ad uso agricolo per il fotovoltaico”.
“Il decreto – riconosce Re Rebaudengo – ha aspetti positivi, come il target di 80 gigawatt di rinnovabili entro il 2030, molto prossimo a quello già proposto da noi che prevede 360 miliardi di benefici economici. O “la premialità tra le regioni più virtuose”.
Ma poi ci sono gli aspetti negativi. Inaccettabili “gli indici previsti per i terreni ad uso agricolo, che limitano al 10% dell’area lo spazio dove costruire l’impianto fotovoltaico a terra e del 20% nel caso di agrivoltaico”. Un decreto che passasse in questa versione trasformerebbe di fatto, dice EF, le aree in non idonee: “In Italia i terreni sono tipicamente molto frazionati. E quindi se un operatore deve avere un’area 10 volte più grande di quella necessaria per l’impianto, diventa un’impresa mettere insieme il territorio necessario”. Un fattore considerato generatore di un meccanismo speculativo sul prezzo dei terreni “con evidenti costi da trasferire su quello dell’energia”. Servono modifiche, come quella di capovolgere le percentuali, riservando il 10 o 20% all’uso agricolo e non viceversa.
Stigmatizzata anche la previsione per l’eolico, realizzabile “solo se è presente una ventosità che garantisce 2.250 ore annue di produzione”. Un dato attualmente verificabile in poche zone del Paese. E suscettibile poi di una variabilità condizionata dai fenomeni meteo. Non proprio lo scenario normativo migliore per investire. La soluzione? Copiare la Germania, dove se il vento è minore di quello della media storica, sono previste correzioni in aumento fino al 30 per cento della tariffa.
Non manca, poi, il richiamo a una burocrazia chiusa nelle sue procedure. Tanto inavvertita della funzione di decarbonizzazione assicurata dagli impianti per le rinnovabili e della loro flessibilità indirizzata al successivo riciclo, da stabilire distanze fino a 7 chilometri dai siti Unesco. Senza contare le sabbie mobili in cui sembra finito il decreto attuativo delle
Comunità energetiche rinnovabili. Il disegno di un Paese ancora a due marce, sulle rinnovabili. A Pichetto, Sangiuliano e Lollobrigida il compito di rispondere a Elettricità Futura.
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