La ragazza e la carriola: svolta nel delitto di Ponza
Una ragazza e una carriola. Sono questi i due elementi che segnano la svolta nel giallo di Ponza, dove il 9 agosto 2020 fu trovato morto in circostanze misteriose l’ex campione mondiale di kick boxing Gianmarco “Gimmy” Pozzi. Un incidente, fu questa la prima pista seguita dagli investigatori, che inizialmente credevano che il ragazzo fosse precipitato accidentalmente da un’altezza di tre metri in un’intercapedine in zona Santa Maria tra un muro di un campo incolto e un’abitazione, di notte e in preda alle allucinazioni da cocaina. Un’ipotesi alla quale la famiglia non ha mai creduto, perché Gimmy aveva segni evidenti di un violento pestaggio.
Grazie alle indagini difensive dell’avvocato Fabrizio Gallo e alla tenacia dei familiari di Gianmarco, man mano quella pista è stata smontata pezzo pezzo, manifestandosi per ciò che davvero il caso è: un omicidio volontario, costellato da depistaggi e maturato in un ambiente omertoso che ha creato una cortina fumogena per nascondere i traffici di droga sull’isola. Nonostante i tentativi di celare la verità, i riflettori sulla terribile fine dell’ex campione non si sono spenti, spingendo alcuni testimoni a farsi avanti. Tra questi alcuni amici di Gianmarco, che avevano bollato come false le voci che il buttafuori, la sera della morte, fosse in preda ai deliri della droga. Poi il racconto del proprietario della casa nella cui intercapedine è stato trovato il cadavere, che giura di aver sentito un tonfo sordo compatibile con la caduta di un corpo già morto, visto che non ha udito alcun urlo o lamento. E ancora la rivelazione di una super testimone, sulla cui identità c’è il massimo riserbo, che aveva raccontato ai familiari della vittima di aver visto, nella notte tra l’8 e il 9 agosto 2020, alcune persone spingere una carriola ammantata da un telo nero, dalla quale spuntavano delle gambe, probabilmente proprio quelle di Gimmy.
La donna, che ha garantito di aver riconosciuto una delle persone che trasportavano il cadavere nella carriola, non ha mai voluto mettere a verbale la sua dichiarazione, perché ha paura per se stessa e per i suoi figli. Un racconto, questo, dai contorni inquietanti che, però, sembrava quasi privo di elementi fino a pochi giorni fa, quando davvero quel campo incolto, dopo tre anni dal delitto, ha riportato alla luce la carriola indicata dalla teste. A trovare il macabro “mezzo di trasporto” è stato Paolo Pozzi, il papà di Gimmy, che ogni anno, in occasione della festa di San Pietro e Paolo del 29 giugno, fa una sorta di pellegrinaggio verso il luogo in cui è stato gettato il corpo di suo figlio. Il genitore, dopo aver deposto i fiori sul muretto dell’intercapedine, aveva deciso di fare una passeggiata, scendendo in un punto del campo dove né lui né gli inquirenti erano mai passati. E lì, casualmente, ha notato qualcosa che lo ha fatto trasalire: da alcune sterpaglie spuntava il manico di una carriola, che Paolo Pozzi ha subito ricollegato all’incredibile storia raccontata dalla super testimone.
Quella carriola si trovava a soli 128 metri dal punto dove Gimmy era stato scaricato. Così, dietro consiglio dell’avvocato Gallo, ha chiamato subito la Guardia di Finanza di Ponza, che ha sequestrato l’attrezzo e un sacco nero contenuto al suo interno. Una svolta che, forse, ha spinto qualcuno ad un passo falso e ha dato nuova linfa alle indagini. Perché appena nell’isola si è sparsa la notizia del sequestro della carriola, inviata ai carabinieri del Ris per le analisi scientifiche e l’isolamento del dna dei presunti responsabili della morte di Gimmy, in caserma è arrivata una strana telefonata. Mentre Paolo Pozzi si trovava dalla Finanza per il verbale del sequestro, una ragazza ha chiamato gli inquirenti per puntualizzare alcune circostanze che hanno destato sospetti. “La carriola l’ha usata mio padre, ma non è di mio padre”, ha giurato la giovane, la cui identità al momento non è stata resa nota. Non sarebbe però una ragazza qualunque, ma un profilo rilevante per gli inquirenti, collegato terribilmente al caso Pozzi. Si tratta, infatti, della figlia della signora che, la mattina del 9 agosto 2020, ha pulito la casa in cui Gimmy abitava insieme ad altri tre coinquilini. Un appartamento vissuto da quattro uomini che lavoravano la sera nei locali della movida, trovato immacolato e tirato a lucido quando i carabinieri entrarono per i rilievi.
Quel filo rosso tra la madre che aveva effettuato le pulizie a casa della vittima e il padre che aveva usato la carriola ha fatto sobbalzare gli investigatori, che hanno interrogato la ragazza e convocato altre persone in caserma in questi giorni, in attesa delle risultanze scientifiche sulla carriola e sul telo nero, su cui sarebbero state isolate alcune tracce, che potrebbero dimostrare non solo la tesi sempre sostenuta dalla famiglia Pozzi, ovvero che Gimmy è stato massacrato di botte e trasportato attraverso quel campo per essere gettato già morto o in fin di vita nell’intercapedine. Ma potrebbero perfino collegare i nomi delle persone che hanno aiutato gli assassini a disfarsi del corpo e a mettere in scena la storia della caduta accidentale dal muretto di tre metri. Una versione che avrebbe potuto reggere, complice il fatto che sul cadavere della vittima non fu fatta l’autopsia e che il corpo venne cremato, se non fosse per la perizia effettuata dal professor Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale all’Università Sapienza di Roma e direttore dell’obitorio comunale della Capitale. Il consulente della famiglia Pozzi, sulla base di tutta la documentazione del caso, ha infatti certificato che Gimmy è stato ucciso.
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