“Decido io”, Raul Gardini trent’anni dopo
RAUL GARDINI
“Decido io”, diceva e così fece anche quella mattina di trent’anni fa, alle 8:15 del mattino, quando una calda Milano aveva appena bevuto il caffè e stava ancora sonnecchiando. Si sparò alla tempia con la Walther PPK, la pistola di James Bond e in fondo lui un po’ Bond lo era stato, avventuriero e con una vita avventurosa, sempre impeccabile nel vestire, iconico sapendo di esserlo. Ma Bond non muore mai, Raul invece era morto per davvero. Il provinciale di Ravenna, Il Contadino, arrivato a Piazza Affari dopo scalate ostili, sempre all’ attacco, sempre davanti alle sue truppe, sempre in prima fila, sempre contro tutto e tutti anche quando non era così ma a lui serviva essere così, un carro armato, fermato da un colpo di 7.65 alla tempia, A Palazzo Belgioioso esattamente trenta, lunghissimi anni fa. Era già ricco, di una famiglia di campagna che aveva il proprio capitale nella terra emiliana, laboriosa e poco godereccia, senza i lussi che la borghesia contadina fatica appunto a concedersi . Ma lui voleva di più, non voleva tutto, non gli bastava tutto, ma sempre di più e non si trattava solo di quattrini. Entrò giovane nel Gruppo Ferruzzi, una creatura strana creata da suo suocero Serafino, un genio con lo sguardo furbissimo e i baffetti bianchi che era partito vendendo per i paesini oli e sementi con la bicicletta ed era diventato il leader più grosso gruppo agroalimentare italiano e uno dei players mondiali, arrivando a possedere terre ed impianti anche negli USA. Ma Raul volava di più, voleva essere il, numero uno tra i numeri uno, primus e basta senza inter pares. Morto Serafino nel 79 in un disastro aereo, le figlie e il figlio di Ferruzzi gli diedero le deleghe operative del gruppo e lui scateno una tempesta, che sconvolse il cosicdetto salotto buono della finanza italiana , che non lo digerì mai e di cui lui non si sentiva parte parte ma sapeva che si sarebbe dovuto sedere con quelli che lui considerava degli elefanti invecchiati in una savana chiusa da sempre. Cercò l’ alleanza con chi dava le carte , quel croupier e padrone del casinò che era il dominus di Via dei Filodrammatici ovvero Cuccia, vero padrone del capitalismo italiano, come l’ Innominato di manzoniana memoria il quale non rispondeva a nessuno tranne che a se stesso. L’ accordo ci fu, poi si ruppe rovinosamente ,poi lo ottenne ancora e alla fine il giocattolo si ruppe. Acquisì Standa, La Fondiaria, Il Messaggero, migliaia di immobili, investimenti miliardari nello sport, scalò la Montedison contro il parere di tutti e allora il Vecchio si arrabbiò davvero senza battere ciglio. Immaginò di creare il più grande colosso agro alimentare industriale del mondo, partecipando alla creazione dell’ Enimont, una joint venture con l’ Eni come socia al 40% ed il restante 20% flottante in Borsa, ma pensava già da mesi come accaparrarsi la maggioranza assoluta. Decido io, la chimica sono io, disse a Padova. Ma il colosso pubblico – privato aveva le fondamenta di argilla e i partiti non si sarebbero fatti sfilare la chimica da sotto il culo e comincio un’ altra guerra che lo portò alla rovina, era una battaglia persa in partenza e Raul pensava che pagando , a carissimo prezzo, l’ avrebbe portata a casa anche stavolta. Il gruppo era carico di debiti e quando in piena Tangentopoli, il procuratore Borrelli disse un giorno ” abbiamo acceso un faro su Mediobanca”, il salotto buono capì subito e qualcuno cominciò davvero a preoccuparsi. Il faro non illuminò mai quella direzione e spostò la sua luce accecante sull’ anello debole del capitalismo italiano, il Gruppo Ferruzzi, la sua obesità di quattrini spesi e quella voragine di debiti con le banche. La famiglia gli tolse le deleghe, lui ricevette una cifra mostruosa pari 505 miliardi cash per togliersi dalla palle: era diventato ricco oltre ogni immaginazione ma aveva perso. La sconfitta fu bruciante e non si riprese mai. Tentò di distruggere la sua creatura ma non ci riuscì e una pallottola trent’ anni fa mise fine a quel sogno proibito, alla vita di quell’ imperatore ravennate che era ad un passo dal diventare un Dio ma che cadde come Icaro, accecato non dal sole ma dalla sua stessa figura. Ci piace ricordarlo al timone del Moro di Venezia, il suo ultimo grande sogno, col suo berretto e i suoi abiti bianchi, quel miliardo di Winston fumate e spente e accese, una dietro l’ altra, quel sorriso da eterno ragazzo che ammaliò l’ Italia intera. La sua storia dovrebbe essere raccontata più approfonditamente, come forse, molto forse farà la docu fiction su Rai1 in onda stasera, ma il suo ricordo sarà impossibile da dimenticare, mai oblio ci sarà . Non abbiamo più visionari nel nostro paese ma solo personaggi che pensano a domattina e non ai prossimi dieci o venti anni. Amo il vento, diceva. Aveva ragione.
Personalmente sono dell’idea che la vita debba essere vissuta fino in fondo e non per finta, anche se talvolta c’è da farsi venire il mal di stomaco.»
Raul Gardini
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