Attualità

IN GIUSTIZIA – Nel nome di Satana

di Redazione -


di ELISABETTA ALDROVANDI

Aveva solo 19 anni, Leslie Van Houten, quando venne rinchiusa in cella. Per lei, una condanna all’ergastolo per aver partecipato, quella maledetta notte del 1969, al massacro della famiglia LaBianca, avvenuto il giorno dopo quello in cui vennero uccisi, con ferocia inaudita, Sharon Tate, incinta di otto mesi, e altre quattro persone presenti nella casa a Los Angeles che il compagno, il regista Roman Polanski, aveva preso in affitto per l’estate.
La Van Houten faceva parte di quella che, all’epoca, venne definita “The Family”, ossia una setta di un centinaio di adepti capeggiata da un aspirante cantautore fallito, tale Charles Manson, che, tra alcol, droga, violenza e manipolazione mentale, riuscì a plagiare le menti di giovani seguaci, tra cui ragazze rese, letteralmente, sue schiave, pronte a tutto pur di compiacerlo.

Anche a uccidere con indescrivibile crudeltà, come avvenne la notte del 9 agosto 1969, quando, strafatti di chissà quante e quali sostanze, tre seguaci (ma non Manson, che evitò di sporcarsi le mani di sangue restando semplice regista e mandante del massacro) penetrarono nell’abitazione in cui viveva la modella Sharon Tate, compagna del regista Polanski, uccidendo lei e il bambino che portava in grembo, e quattro ospiti della casa.
In realtà, le vittime vennero uccise per errore: quella casa era di proprietà del figlio dell’attrice Doris Day, produttore discografico che aveva negato a Manson un contratto, e questi voleva vendicarsi. Non sapeva che l’uomo l’aveva affittata per l’estate a Polanski. Il giorno dopo, altro massacro, al quale partecipò, oltre a Manson in persona, pure la Van Houten, e che ebbe come vittime Leo LaBianca, titolare di un supermercato, e sua moglie Rosy, entrambi uccisi in modo brutale: lui fu accoltellato, gli incisero la parola “war” sul petto e gli infilzarono un forchettone da cucina nella pancia e un coltello da bistecca in gola. Lei, invece, venne incappucciata e ammazzata con 41 coltellate. Il sangue delle vittime fu poi usato sulle pareti di casa per scrivere le parole “death to pigs” (“morte ai porci”) e “rise” (“insorgete”).

Prima di lasciare il luogo del delitto, gli assassini si fecero la doccia e poi rientrarono in autostop. Individuati e arrestati, furono condannati all’ergastolo. Manson, il capo setta, morì in carcere nel 2017. La Van Houten, invece, oggi 72enne, dopo 53 anni di detenzione potrebbe riacquistare la libertà. A rendere probabile la scarcerazione è la rinuncia da parte del Governatore della California Gavin Newsom a impugnare la decisione della Corte d’Appello di concedere la libertà vigilata alla detenuta, una decisione impugnata nelle tre volte precedenti, e motivata dal fatto che la condannata non aveva mai fornito spiegazioni esaustive circa la sua partecipazione al massacro.

Tuttavia, in questo oltre mezzo secolo di carcere la Van Houten ha dimostrato notevoli sforzi riabilitativi, rimorso, piani concreti di vita al di fuori della prigione, e il sostegno di parenti e amici, spiegando la sua condotta criminale con un’infanzia difficile per il divorzio dei suoi genitori e l’abuso di alcol e sostanze stupefacenti durante l’adolescenza.
È giusto che lo Stato conceda la possibilità di dimostrare la propria resipiscenza anche a chi ha commesso i crimini più efferati? Assolutamente sì. In una società civile che ambisca a essere governata dal diritto e fondata sul patto sociale, non può esistere il concetto di fine pena mai, laddove il condannato dimostri concreta volontà di fornire un seppur minimo contributo a migliorare la società che, con le sue azioni criminali, ha tentato di distruggere.
A maggior ragione, se quel contributo viene dato dopo 53 anni di carcere, ossia dopo quasi tutta la vita passata dietro le sbarre, a meditare, e riflettere, su quanto stupido e irragionevole sia lasciarsi attrarre dal fascino del male.


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