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La testimonianza di Vincenzo Cavallaro, imprigionato 15 ore in un sommergibile: “Ecco cosa si prova negli abissi”

di Rita Cavallaro -


“Sto rivivendo con angoscia il dramma degli escursionisti intrappolati nel sommergibile nell’Oceano Atlantico. Un dramma che ho vissuto sulla mia pelle e che oggi posso raccontare solo perché abbiamo sfidato la morte. E abbiamo vinto noi”. È una storia inedita, mai narrata, quella di mio padre Vincenzo Cavallaro, 74 anni, professore, reclutato dal 10 luglio 1968 come fuochista congegnatore nella Marina militare. Poi l’incarico da sommergibilista ad Augusta, in Sicilia, con un corso di due mesi al termine del quale fu imbarcato sul sottomarino Calvi, un gigante della Seconda Guerra Mondiale che, in un tragico giorno del novembre del ’69, ebbe un guasto a 50 miglia al largo della costa e a 300 metri di profondità. Mio padre e gli altri 57 membri dell’equipaggio rimasero intrappolati nel sommergibile per oltre 15 ore, durante le quali il comando cercò in tutti i modi di salvarli, ma senza esito. “Allora, qualsiasi cosa accadeva sott’acqua, non c’era modo di avviare operazioni di recupero. Il Calvi era un “mostro” della Seconda Guerra Mondiale, scricchiolava, e l’istruttore al corso ci ripeteva sempre: “Se rimaniamo sott’acqua moriamo come i topi”. Ed è in quel modo che stavamo finendo”.

L’incidente avvenne nel corso di un’esercitazione. “Ci esercitavamo a una finta guerra. Non appena veniva lanciato l’allarme ci immergevamo a una profondità di 300 metri e dopo un’ora partivano le navi, che dovevano intercettarci. Ci lanciavano finte bombe, noi facevamo partire finti missili. Era il nostro lavoro. Io ero nella sala di comando con gli ufficiali e mi occupavo di misurare, attraverso il manometro, l’acqua da imbarcare a poppa e a prora, che doveva essere della stessa quantità per permettere la corretta immersione rapida orizzontale. Durante le esercitazioni avanzavamo con il motore elettrico, chiamato anche d’agguato. Per la risalita, ovviamente, dovevamo riavviare il motore a scoppio. Quel giorno però, dopo aver scaricato l’acqua per la riemersione, il motore che serve a dare la spinta per la risalita non partì. Era come ingolfato”. Mio padre e gli ufficiali tentarono di rimetterlo in moto, ma non ci fu nulla da fare. Informarono dunque il comando e dettero la terribile notizia all’equipaggio. “Eravamo in trappola, senza soluzioni, e si scatenò il panico. Ho visto uomini sbattere la testa contro le pareti, altri distesi a terra a piangere disperati, c’era chi urlava, chi correva da una parte all’altra. E nel mentre l’ossigeno si consumava. Dopo ore di tentativi, mi coricai a terra, Senza dire una parola. Se ho mantenuto la calma è perché non ho mai avuto paura di morire, dunque mi ero arreso. Passarono così 15 ore”.

Nel mentre in superficie si erano raggruppate le navi della Marina, che con il sonar avevano individuato il Calvi e attendevano che il comando ordinasse un piano strategico per salvare i 58 marinai. Ricorda Vincenzo: “Respiravamo a fatica e cercavo di non muovermi per non consumare aria, quando venne da me il direttore delle macchine, che teneva in mano gli schemi del sommergibile. Mi chiese di andare con lui per ispezionare le varie sezioni. Risultava tutto a posto, i sistemi non segnalavano danni. Non capivamo dove fosse il guasto. Mi disse: “Secondo me non arriva ossigeno al motore. Ho un’idea suicida, ma se non lo aggiustiamo moriamo comunque, quindi conviene giocarci l’ultima carta”. Il piano era estremo: convogliare il poco ossigeno rimasto nelle camere di compensazione, che serviva a far respirare l’equipaggio, verso l’impianto di scoppio del motore. Se avesse funzionato, l’aria avrebbe permesso al propulsore di rimettersi in moto.

“Cavallaro, tanto ci restano al massimo cinque ore di ossigeno. Se il piano non funziona moriamo prima”, disse il direttore delle macchine. “Direttore, tanto ormai dobbiamo morire, proviamo”, rispose mio padre. “Prese il tubo dell’ossigeno e lo attaccò al carburatore”, ricorda Vincenzo, “e appena entrò l’aria, all’improvviso, il motore ripartì. Si sentirono grida di gioia nel sommergibile, eravamo salvi. Risalimmo e uscimmo a riveder le stelle, come nel Paradiso dantesco. Era quasi l’alba e attorno a noi le navi della Marina suonarono le sirene all’unisono, per salutarci”. Arrivarono gli elicotteri e tutto l’equipaggio fu portato in ospedale. Erano sofferenti, ma vivi. “Dopo quell’incidente”, conclude mio padre, “il Calvi fu mandato in disarmo e io non raccontai a nessuno quello che avevo passato, solo a mio padre Cosimo, uno dei ragazzi del ’99, Cavaliere di Vittorio Veneto sopravvissuto alla quella carneficina della Prima Guerra Mondiale. Solo lui poteva capire cosa avevo passato”.


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