IN GIUSTIZIA – L’idiozia che affosserà il mondo
di ELISABETTA ALDROVANDI
In principio era la bellezza, cui si delegava l’ingrato compito di salvare il mondo. Poi, visto che da sola non riusciva perché la bruttezza la soverchiava per quantità e velocità di diffusione, si passò all’empatia, ossia quella rara virtù di immedesimarsi negli stati d’animo altrui, che induce a evitare di assumere comportamenti lesivi della sensibilità del prossimo. Ma anche quella dote preziosa si è rivelata ben presto inefficace, perché chiamata a svolgere la sua delicata missione in un’epoca in cui, dominando il virtuale a scapito del reale, la sua funzione viene costantemente svilita: è assai complicato, infatti, provare dolore per un disegno animato dalle fattezze umane ammazzato durante un gioco che, per grafica, suoni e azione, riproduce perfettamente la realtà, ma che di quella realtà non ha nulla. Al punto che, quando si passa alla vita vera, quella in cui se ci si taglia esce il sangue e se si offende qualcuno questi si arrabbia o si mette a piangere, riesce difficile capire come ci si deve comportare. E la prima reazione è sminuire la gravità quanto fatto, perché non ci si rende conto del suo disvalore.
D’altronde, come si può capirlo, se si vive perennemente in un contesto finto in cui sembriamo tutti immortali e basta un click per farci avere una nuova vita? Non a caso, anche secondo il padre di uno dei ragazzi coinvolti nell’omicidio stradale di Casal Palocco, costato la vita al piccolo Manuel di appena cinque anni, si è trattato solo di una “bravata”. Non a caso, per questo adulto, padre di un ventenne che di “mestiere” registra video in cui si cimenta in sfide pericolose per la sua e altrui incolumità, se durante una di queste sfide ci scappa il morto, ancorché bambino, non è nulla di grave. A chi non capita, infatti, di noleggiare un’auto da oltre 650 cavalli di potenza e di guidarla per 50 ore consecutive mentre riprende col cellulare la fenomenale impresa, al solo scopo di metterla sul proprio canale social e guadagnarci un sacco di soldi? E se sfortunatamente e durante la sfida rimane ucciso un bambino, è un incidente di percorso, un rischio del mestiere, insomma, una sfortuna che poteva succedere a tutti quelli che fanno una “bravata”.
Qui non c’è solo il discorso giuridico delle indagini per omicidio stradale (presumibilmente aggravato dall’uso di droga), delle lesioni gravi causate alla mamma e alla sorellina di Manuel, delle innumerevoli infrazioni al codice della strada, tra cui l’eccesso di velocità, poiché chi guidava sfrecciava ai 110 km orari laddove il limite è di 50 km orari. Qui, il discorso è molto più profondo, e risalente: che cosa porta un ventenne a pensare che l’unico modo per fare soldi sia sfidare la vita propria e quella di altri? E con quali disvalori è stato cresciuto se i suoi stessi genitori lo giustificano? Basta osservare l’immediata reazione di questi ragazzi, che appena scesi dalla macchina dopo il fatto avrebbero ricominciato a fare video. E poi i loro profili social, che da quel giorno terribile hanno aumentato in modo esponenziale il numero di follower e le visualizzazioni, con guadagni di migliaia di euro, prima che i ragazzi decidessero, probabilmente in seguito all’enorme clamore mediatico sorto, a chiudere il loro canale YouTube.
Purtroppo, il macabro e il male sono avvolti da quell’aura di irresistibile che colpisce soprattutto chi si disinteressa alla morte di un bambino e al dolore causato alla sua famiglia. E si torna, come in un circolo vizioso senza soluzione di continuità, all’inizio: all’assenza di quell’empatia che il mondo dovrebbe salvarlo, ma non ce la fa. Perché non c’è. E allora, resta solo l’idiozia, di chi vive per i like, di chi arricchisce altri idioti con i propri like, di chi sminuisce il proprio follow a un mentecatto senza arte né parte perché non si vive di sola cultura, fino a che non ci affosseremo tutti. E, verrebbe da dire, finalmente.
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