IN GIUSTIZIA – Il governo contro la violenza
di ELISABETTA ALDROVANDI
C’era una volta il delitto d’onore. Quella fattispecie delittuosa che puniva in modo più blando chi uccideva il coniuge, la figlia o la sorella in uno stato d’ira determinato dalla scoperta di un’illegittima relazione carnale, perché si considerava come attenuante il fatto di sentirsi offeso nel proprio onore e reputazione. Una vergogna giuridica abolita soltanto nel 1981, ma che ben testimonia una condizione di grave arretratezza culturale e pone il dubbio se sia il diritto a sollecitare l’evoluzione della società, o il contrario.
Vari esempi depongono in favore di questa seconda ipotesi: basti pensare all’introduzione del reato di atti persecutori, divenuto legge in Italia soltanto nel 2009, o a quello di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (il cosiddetto revenge porn), entrato in vigore soltanto quattro anni fa. Insomma, siamo la culla del diritto ma facciamo molta fatica ad adeguarci alla velocità con cui cambiano la società e il modo di interpretare le condotte umane come lecite o illecite, e il nostro legislatore è spesso in affanno e difficilmente riesce a stare al passo. Così accade anche per le norme di contrasto alla violenza di genere: il “codice rosso”, che nelle intenzioni garantiva una corsia preferenziale alle vittime di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e stalking, nonostante le buone intenzioni e la maggiore tutela fornita a chi denuncia questi reati, non basta. O almeno, non più. L’uccisione di una donna ogni tre giorni, nell’85,3% dei casi da parte di partner o ex partner, così come le denunce per violenza sessuale, un reato che vede le donne vittime nel 94% dei casi, o i maltrattamenti in famigli nel 74%, ben palesa che vi sono delitti in cui l’appartenere al sesso femminile rappresenta un rischio assai più elevato.
Numeri oscuri a parte, che riguardano sia gli uomini sia le donne, e pur considerando che un uomo denuncia una violenza sessuale o violenza domestica assai più difficilmente di una donna, va da sé che numeri del genere sono così elevati che la sproporzione è tanto incontrovertibile quanto netta. Tuttavia, trovare soluzioni è assai difficile, fondamentalmente per un principio costituzionale sacrosanto, quello della presunzione di innocenza fino a sentenza passata in giudicato, che limita fortemente l’utilizzo di misure pesantemente coercitive nei confronti di soggetti denunciati per reati in àmbito domestico, nonostante rappresentino l’anticamera di delitti irreversibili, come l’omicidio. L’assassinio di Giulia Tramontano e del suo bambino ha rappresentato lo spartiacque: quel punto di non ritorno oltre il quale la necessità di una stretta contro la violenza di genere non era più procrastinabile.
E così, il Consiglio dei Ministri ha deliberato un disegno di legge che prevede l’arresto differito nel caso di violazione del divieto di avvicinamento dimostrato anche attraverso foto o video, l’estensione dell’istituto dell’ammonimento da parte del Questore anche a reati cosiddetti “spia” come la minaccia aggravata, l’utilizzo più esteso del braccialetto elettronico, oggi usato in numero assai esiguo (circa 1900 su 5000 disponibili, dati 2021), e la distanza minima di 500 metri dai luoghi frequentati dalla vittima. Si pensa anche all’accelerazione dei processi per atti persecutòri e maltrattamenti in famiglia, perché è evidente che se si estendono le misure preventive a tutela della vittima ma che limitano la libertà di un denunciato innocente (fino a sentenza definitiva), è altrettanto fondamentale che si giunga quanto prima all’accertamento della responsabilità, a tutela della persona offesa e in ossequio ai principii di uno Stato di diritto. Ma oltre le intenzioni servono soldi. Servono formazione e prevenzione, a partire dalla scuola e dalla famiglia. Serve tutto, e subito.
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