Attualità

Almanacco Cavaliere: dietro le quinte di Silvio

di Nicola Santini -


Quando ho messo piede ad Arcore per la prima volta stavano portando via un palo di metallo e installando un pianoforte a coda. Così mi dissero. La stanza che era stata ribattezzata “del Bunga Bunga” era in fase di cambio destinazione. Arrivo io e la festa finisce? Mai una gioia nella mia vita. Eppure nell’aria c’era tutto tranne che un senso di sconfitta. Berlusconi era pronto ad aprire un capitolo nuovo della sua vita: c’era da un po’, al suo fianco, Francesca Pascale, c’era Dudù cucciolo, e lui si preparava a curare la regia delle Europee. Sapeva che a farlo fuori dai palazzi di potere non era stata una malapolitica ma il gossip. La cosa a tratti lo consolava, a tratti lo innervosiva.

Il mio essere irriverente sempre e comunque, senza mai considerare chi ho di fronte, si sintonizzò immediatamente sulle sue frequenze: “Se tu dovessi dirmi qualcosa che non va, cosa mi diresti?”- “Che la maggior parte della gente che le sta intorno, in qualche modo vuole fregarla”. La risposta mi lasciò di stucco: “Lo so”- fiato- “Ma vedi, Nicola, ho passato gran parte della mia vita in azienda, andando a trovare nel week end tutte le persone che lavoravano per me quando si trovavano in ospedale, cerco di ricordare i nomi di tutti quelli che incontro: preferisco ogni tanto farmi fregare, nei limiti, si intende, che vivere con l’ossessione di dovermi continuamente guardare davanti e didietro”. Lezione uno, presa e portata a casa. A Berlusconi si poteva dire molte cose: cosciente della propria vanità, che alimentava con serena strafottenza, aveva un tema che lo rendeva simpatico anche a chi lo detestava per professione. Bastava un minimo d’intelligenza e onestà intellettuale. Le mezze tacchette lo hanno sempre detestato. Gli altri, al massimo, ne detestavano i frutti: certi deputati impresentabili che poi gli hanno girato le spalle, certi fenomeni che gli sono costati cari nel lavoro come nella vita pubblica. E non si poteva dire, però, che non fosse consapevole, benché incredulo, di quanto odio gratuito potesse scatenare. Quello gli faceva male.

Gli faceva bene, invece, curarsi delle persone a cui teneva: tante le domeniche sera nella sala da pranzo più piccola, quella da venti persone al massimo, in cui riuniva una stretta cerchia di suoi protegé politici e i direttori dei suoi tg. Non era una corte dei miracoli era una tavola aperta dove ognuno diceva la sua. E dove lui ascoltava. Se parlavi, inarcava il busto e ti guardava senza distrarsi un solo secondo, pure se dicevi cose che sapeva già. Una sera mi son trovato fianco a fianco in una sala nel seminterrato adibita a cinema, dove vedere le partite del Milan dava quasi l’idea di essere in curva. Ero da solo con lui. Non avevo mai visto una partita in vita mia e, quando alla fine del primo tempo in un Torino-Milan di settembre, le porte si invertirono e il Milan subì l’ennesimo gol dall’avversario, mi scappò una sorta di squittìo. Comprese la mia ignoranza in materia, non me lo fece pesare, e mi mandò a ripetizione a San Siro qualche domenica dopo. Quella sera coi supplementari se la cavò il Milan e io fui visto come un portafortuna. La volta dopo, contro il Parma, non andò altrettanto bene ma lui non venne in tribuna: la decadenza da senatore era vicina, la condanna ai servizi sociali pure, di uscire non aveva voglia. Ma mai una volta che lo abbia sentito parlar male degli avversari o di chi lo aveva in qualche modo messo in quella circostanza.

Roma interno giorno. A Palazzo Grazioli stavamo aspettando il verdetto: Berlusconi non era più senatore. Un fuggi fuggi nelle due ore successive, imbarazzante. Volevamo organizzare una sorta di fiaccolata silenziosa davanti al Colle, eravamo in tre. In tre rimanemmo. Dei suoi traditori sapeva benissimo nomi e cognomi.
Mai una parolaccia spesa in loro disprezzo.
Un dispetto, una volta, di cui fui inconsapevolmente complice: mi chiamò per un tè di lunedì pomeriggio. Ovviamente mi precipitai. Lui che era sempre di fretta, quel giorno era in vena di raccontare barzellette. Molte non facevano ridere. Lo fece per due ore. Scoprìi solo dopo che il tutto era stato in qualche modo orchestrato per far fare anticamera ad Angelino Alfano, che detestava le lunghe attese. Quella sera si vedevano per dirsi addio: il venerdì successivo nasceva il Nuovo Centro Destra, e con esso un tot di fedelissimi mollavano la presa. Cosa disse? Niente. Una profonda delusione gli si leggeva in faccia, ma era da tempo che se lo aspettava.
Il regalo più grande, segno di una umanità che pochi si possono permettere, la telefonata a mio papà nel giorno del suo cinquantanovesimo compleanno. Mio padre era stato assessore di Forza Italia e, come lui, nasceva craxiano. Non si erano però mai incontrati: “Mi raccomando, Mauro, festeggi alla grande, ma non vada a puttane. Non oggi, quantomeno”.


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