Il professor Alberto Sobrero: “Basta errori di comunicazione: parliamo di speranze vere e traguardi misurabili”
Uno dei temi più rilevanti attorno alle malattie oncologiche è senz’altro quello della comunicazione. Quanto sappiamo oggi dei progressi oncologici? Cosa si sta facendo dal punto di vista della ricerca? Quanto è vero quello che ci viene raccontato? A parlarne a L’Identità il Professor Alberto Sobrero, direttore del dipartimento di Oncologia ed Ematologia del Policlinico San Martino di Genova, in collaborazione con il professor Andrea Risaliti dell’Università di Udine.
Tema rilevante, in oncologia, quella della comunicazione. Quali sono, o sono state le problematiche?
Ci sono state forme di comunicazione, forse errate, che gli oncologi hanno usato in passato per trasmettere gli avanzamenti della medicina al grande pubblico, ma che non hanno dato l’effetto sperato. Fino a qualche anno fa, quando gli oncologi intervistati per spiegare gli avanzamenti di ricerca, l’impostazione era quella di vedere tutto dalla propria prospettiva, ovvero quella di ricercatore e di chi conosce bene la malattia. E a fronte di terapie con potenziale limitato, presentavamo risultati che non potevano che essere limitati, ma che rappresentavano grandi passi avanti, spesso non percepiti come tali dal grande pubblico.
Perché ciò si riscontra in oncologia? Ci può fare un esempio?
L’oncologia si divide due gruppi di tipologie di pazienti: quelli che possono guarire e quelli che non possono guarire, con malattia avanzata e disseminata. Nel primo gruppo, dove sul piatto della bilancia c’è, appunto, la guarigione, anche un piccolo incremento è importante. Perché persone che morirebbero, invece, guariscono e in questi casi un aumento della sopravvivenza anche del 3-5% era una vittoria (anche se non percepita come tale). Nel secondo gruppo, dove chance di guarigione non ci sono, si guarda all’allungamento della sopravvivenza medica. Ad esempio, prediamo il tumore del pancreas: per questa tipologia si aveva senza terapia una sopravvivenza di 2 mesi e poi, con terapia si è arrivati a 5-6 mesi. Quando poi un trial francese è arrivato a dare 9 mesi di sopravvivenza, è stato un grande traguardo, perché percentualmente è un 60% di aumento della sopravvivenza. Ma se si racconta ai media o ai medici di famiglia o ai pazienti il commento è: allora muoio lo stesso?
È per questo difficile far capire l’entità dei progressi?
Sì. Perché il beneficio clinico non va misurato dal punto di vista degli esseri umani, ma sui benefici a lungo termine. In almeno una decina di tumori, questo beneficio a lungo termine (che è di 3-5 anni) oltre ad allungare la media che, appunto, ora è in anni, vede aumentate le chance di essere in vita a 5-7 anni. Esempio più classico quello del tumore al polmone, rene, vescica, melanoma. In queste neoplasie, mentre fino a 5 anni fa la chance di essere in vita con malattia disseminata (quindi per quelli per cui non c’erano chance di guarigione) era molto bassa, oggi grazie alle immunoterapie e alle terapie biologiche, c’è un 30% di chance di essere in vita 5-7 anni.
Per tutte le neoplasie ci sono stati passi avanti?
No, ad esempio, il gruppo delle neoplasie del tratto gastro intestinale non ha beneficiato di questa rivoluzione dell’immunoterapia, delle terapie biologiche in modo sostanziale. Per il tumore del colon avanzato, ad esempio, la sopravvivenza media è passata da 4-5 mesi senza cure (anni ‘80), a 10 mesi con le cure (fino al 2000), a 20 mesi (fino al 2015) fino ad oggi che siamo sui 25-40 mesi. Tuttavia, in queste neoplasie, come in altre, c’è un sottogruppo, circa il 5% che ha delle caratteristiche molecolari per cui si può agire con immunoterapia, che da chance di sopravvivenza a lungo termine sopra al 50-70%. Quindi, oggi, di fronte a un tumore al colon avanzato, si fa un test molecolare, cioè uno screening di geni con tecniche di biologia molecolare, che scopre se il paziente ha quelle caratteristiche tali per cui si può intervenire per arrivare alla guarigione. Un 5% che rappresenta un trionfo, un risultato enorme e non ingiustificato. Siamo ancora nel mondo del passato in termini di trasmissione delle informazioni.
Qual è il messaggio che non passa?
La questione viene complicata dalla necessità di comprendere le due popolazioni, di guaribili e non. Perché se da un lato ci sono passi avanti – enormi – sull’allungamento della vita, ci sono dall’altro lato, quelli che già guarivano, su cui sono stati fatti passi avanti ancora maggiori. È necessario porre maggiore attenzione nella comunicazione e ragionare a livelli: ad esempio, se prediamo in considerazione il gruppo di pazienti guaribili, in cui sono aumentate le chance di guarigione, lì la sfida è questa: come faccio ad aumentarle?
Il Ceo di Moderna in una intervista nelle scorse settimane ha parlato di nuovi vaccini per le neoplasie entro il 2030.
Quali precisazioni si possono fare in termini di comunicazione? Quanto c’è di vero?
In quella intervista vengono riportate tutte cose vere, ma bisogna vedere come la si legge. Si trasmetteva grande ottimismo sulla prospettiva che entro il 2030 avremo vaccini personalizzati per tutti i tipi di tumore e che questi potranno essere guariti. È un ottimismo eccessivo, ma che deriva da un fatto: l’FDA un mese prima di quelle dichiarazioni aveva registrato un vaccino per il melanoma che aumentava del 17% le chance di guarigione. Ma si parlava, appunto, di un melanoma, su cui sappiamo che l’immunoterapia funziona. E questa del vaccino è una tipologia di immunoterapia che ha funzionato un po’ meglio. E dobbiamo sottolineare che è stato utilizzato in pazienti con malattia non avanzata. Diverso invece, quello che è emerso a Miami, dove è stata testata la tecnologia del vaccino personalizzato. Una tecnologia molto complicata – che non può essere utilizzata su tutti i pazienti – che ha dimostrato grandi risultati. Sono stati sottoposti a vaccino una platea di 15 pazienti operati di cancro al pancreas (di cui sappiamo che 7 su 10 hanno una ricaduta). Su metà di loro il vaccino ha evocato risposta positiva.
E la notizia ancor più positiva è che di questi 7, nessuno ha avuto una ricaduta a distanza di più di un anno. Questo potrebbe essere il primo segnale che quanto detto dal Ceo di moderna potrebbe anche essere vero.
Cosa può cambiare ora a livello di comunicazione? Quali messaggi mandare?
Il problema della comunicazione in oncologia c’è sempre stato, ma ora emerge in maniera grave. Perché ora abbiamo qualcosa di credibile, di utile e di non troppo emotivo, che sono le tre caratteristiche per cui il messaggio può andare in porto. Ora possiamo comunicare speranze vere, legate a qualcosa di misurabile per la mente umana e non solo per quella del ricercatore, come avveniva qualche anno fa.
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