IN GIUSTIZIA – Giulia e Thiago ugualmente vittime
di ELISABETTA ALDROVANDI
Tantissima attenzione mediatica e sdegno collettivo ha suscitato l’omicidio di Giulia Tramontano e di Thiago, il bimbo che portava in grembo. E, anche se per la legge la persona uccisa è una sola, per il senso comune, intriso di lacrime e rabbia per queste morti così ingiuste, le vittime sono due. La mamma, e il suo bambino, già formato nel suo ventre e che se fosse nato sarebbe certamente sopravvissuto. In questo senso la nostra legge andrebbe cambiata: attualmente, non viene considerato omicidio l’interruzione di una vita che nel momento in cui è spezzata non è autonoma, come quella di un feto. Ma non serve essere laureati in medicina per capire che un conto è interrompere una gravidanza ai primi mesi, un conto è farlo quando il bambino è così forte e completo di tutti i suoi organi che, se nascesse prematuro, avrebbe ottime possibilità di sopravvivere.
E su questo tema, la politica deve essere sensibilizzata e interpellata, affinché rifletta sull’opportunità di considerare casi come quello di Giulia e di Thiago non un omicidio singolo, ma duplice. Anche perché chi, presumibilmente, ha commesso questo crimine così efferato non solo sapeva dello stato di gravidanza della donna, ma era direttamente coinvolto nella procreazione, come padre del bambino. E la lucida efferatezza con cui avrebbe deliberatamente posto fine alla vita della compagna sapendo che così avrebbe impedito a suo figlio di venire al mondo, non può essere ristretta, in punto di sterile diritto, a una interruzione di gravidanza. È molto, molto di più. È impedire a una vita in procinto di nascere di farlo, a quella vita che esiste anche grazie al proprio seme.
E non sono particolari che possono passare in secondo piano, neppure nelle austere aule di un tribunale, dove i sentimenti e il dolore dei familiari delle vittime difficilmente avranno il giusto spazio. Perché bisogna stare attenti a non trasformare una persona che ha sbagliato in un mostro, in quanto anche questa persona ha diritto di riabilitarsi, e un giorno, qualsiasi sarà la sua condanna, di ritornare in società, come se scontare la pena processuale equivalesse a togliersi di dosso le macchie del sangue della compagna e del proprio figlio.
E se da avvocato condivido le esigenze del diritto e concordo con la funzione riabilitativa della pena prevista dal terzo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione, e comprendo che non ci si può lasciare trasportare dai sentimenti e dall’inquinamento emotivo, tuttavia non posso fare a meno di pensare che personalità come quella di Alessandro Impagnatiello sono tra noi, si confondono tra gli amici, i colleghi, i vicini di casa, spesso mascherate da vite di successo, suscettibili di ammirazione e invidia, come era la sua. “Instabile emotivamente e manipolatore, con assoluta incapacità di sopportare le frustrazioni”: così ha scritto il GIP che ha convalidato l’arresto e disposto la custodia cautelare in carcere per il trentenne reo confesso. Elementi caratteriali gravi, ma quanto frequenti? In particolare, colpisce l’incapacità di Impagnatiello di sopportare le frustrazioni. Caratteristica tipica, a volte, delle nuove generazioni, imbottite di “sì”, soddisfatte nei loro desideri ancora prima di capire di averli, abituate al tutto e subito, nei cui confronti, spesso, la parola “no” è inesistente, perché i genitori, cresciuti in famiglie autoritarie, non vogliono reiterare modelli educativi ritenuti, in buona parte a ragione, sbagliati.
Tuttavia, l’educazione al rispetto non può prescindere dalla capacità di forgiare caratteri in crescita anche attraverso prove da superare, come l’accettazione di un rifiuto. Educare significa insegnare valori positivi e lasciare ai figli desideri insoddisfatti, sogni irrealizzati, perché capiscano che la vita non è fatta di oggetti da possedere e buttare quando non servono più. Ma di relazioni, sentimenti, persone da amare. E, soprattutto, rispettare.
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