IN GIUSTIZIA – Il male oscuro della famiglia
di ELISABETTA ALDROVANDI
“Non ti uccido perché devi sopravvivere e provare tutto il dolore che hai causato a me”. Sono le parole che Taulant Malaj avrebbe rivolto alla moglie mentre, nella notte tra sabato e domenica scorsa, consumava una serie di efferati delitti nel palazzo in cui viveva con la famiglia, in provincia di Foggia. Lui, 45enne albanese, avrebbe ucciso a coltellate la figlia 16enne e poco prima Massimo De Santis, un commerciante italiano di 51 anni, “colpevole” di essere, secondo lui, l’amante della coniuge, Tefta, 39enne sua connazionale. Parole che emergono da un video girato dall’uomo subito dopo i fatti, in cui si vede il corpo senza vita di De Santis, quello della figlia ferita a morte e della moglie, che invece fortunatamente non è in pericolo di vita e se la caverà. Avrebbe cercato di uccidere anche l’altro figlio di appena cinque anni, ma per un casuale e fortunato segno del destino non è riuscito a trovarlo. Un bambino che, in una notte lunga quanto una vita ma in una manciata di minuti breve e fugace quanto il fendente di una lama ha perso di colpo la sorella, ha rischiato di perdere la madre, e si ritroverà orfano di padre, reo confesso di un duplice omicidio e di lesioni gravi. Stando alle dichiarazioni rese subito dopo l’arresto, la donna aveva confessato al marito la relazione extra coniugale ma gli aveva chiesto di non andare via da casa. Lui aveva accettato convinto che il rapporto con l’amante fosse terminato, ma sabato sera, mentre erano a letto, si è accorto che la moglie scambiava messaggi proprio con quell’uomo. E così, preso un coltello, sarebbe sceso in strada e avrebbe atteso il suo rientro in casa. Dopo averlo ucciso, sarebbe risalito nell’appartamento e avrebbe aggredito la moglie ma, accecato dalla rabbia e dalla gelosia, avrebbe colpito la figlia, intervenuta pr difendere la madre dalla furia paterna. Dopo di che, avrebbe girato il video in cui si sentono quelle atroci parole di vendetta nei confronti della moglie. La quale, appena arrivata in ospedale e risvegliatasi, ha chiesto della figlia. Di quella figlia morta per difenderla. Ennesimo caso di violenza domestica trascesa in un atto irreparabile? O cosiddetto “raptus di follia” che avrebbe momentaneamente obnubilato la mente dell’uomo? Riesce fin troppo facile prevedere che la difesa dell’arrestato, accusato di duplice omicidio aggravato e lesioni gravi, ricorrerà alla richiesta di perizia psichiatrica per accertare la sanità mentale dell’uomo al momento dei fatti. In effetti, di fronte a capi di imputazione così gravi, che peraltro escludono la possibilità di beneficiare di riti alternativi come il giudizio abbreviato che garantisce sconti di pena automatici di un terzo, di fronte a una confessione piena così come a riprese video e alla testimonianza (futura e presumibile) della moglie che confermerà lo svoglierebbe dei fatti, soltanto una parziale o totale infermità mentale e quindi non imputabilità potrebbe attenuare o eliminare la responsabilità, ed evitare la pena più grave prevista dal nostro ordinamento, ossia l’ergastolo.
Questo, perché lo Stato deve reagire, in modo tempestivo e proporzionato alla gravità del fatto commesso, di fronte a condotte che rompono quel patto sociale di roussoniana memoria, che prevede uno scambio di diritti e doveri tra i soggetti che decidono di abbandonare una vita allo stato “naturale” e lo Stato, diventando così cittadini. Ma è necessario pure che si approfondiscano le ragioni e gli antefatti che portano a tali delitti efferati, perché pare inverosimile che una tale ferocia si sia scatenata all’improvviso, senza alcun segnale premonitore che abbia funto da spia d’allarme in grado di far comprendere lo stato di pericolo, e soprattutto di indurre la vittima (o le vittime) a chiedere aiuto. L’auspicio è che, anche in questo caso, non spuntino fuori conoscenti o vicini di casa che sapevano di eventuali violenze perpetrate in quella casa, ma che, per indifferenza o per evitare il rischio di essere coinvolti, hanno preferito non vedere. Pur sentendo.
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