Se Francesco cerca la pace nell’Ungheria di Orban
di FRANCESCA CHAOUQUI
Il 41esimo Viaggio Apostolico di Papa Francesco è carico di significati. Il Santo Padre è tornato in Ungheria dove era già stato nel 2021 per celebrare la messa conclusiva del 52esimo Congresso eucaristico internazionale. In due anni sono cambiate tante cose sia sul piano geopolitico, sia sui rapporti tra Orban e il Santo Padre. All’epoca le dichiarazioni dei mesi precedenti al viaggio del primo ministro ungherese, che avevano il sapore del razzismo, avevano allontano le parti che ora invece si ritrovano molto più vicine, soprattutto per motivi di opportunità. La guerra in Ucraina ha cambiato la scala delle priorità e pure l’Ungheria di Orban potrebbe essere utile per raggiungere quella pace che metterebbe uno stop all’escalation a cui stiamo assistendo. Il viaggio di Bergoglio non è carico di soli significati spirituali: è un viaggio di altissimo valore politico. Una sorta di missione diplomatica per aggiungere un tassello al grande lavoro che il Vaticano sta facendo per mettere fine alle ostilità in Ucraina.
C’era grande attesa nella “perla del Danubio” dai cittadini alle autorità religiose, civili e politiche, agli esponenti del mondo della scienza e della cultura, tutti pronti ad accogliere il messaggio del Santo Padre con la speranza che possa riscaldare i cuori colpiti dai “gelidi venti di guerra” che si abbattono sull’Europa. La presidente Katalin Novak e il primo ministro Viktor Orbán hanno fatto gli onori di casa di una terra che conta tra la popolazione oltre il 40% di cristiani e non ancora a pieno titolo membro dell’Unione Europea, in quanto non ha ancora completato la terza fase dell’Unione Economica e Monetaria, nonostante i quasi vent’anni di presenza nelle istituzioni europee a testimonianza che l’Europa, unita dalle comuni radici giudaico-cristiane, può battere sul campo la dimensione economico-finanziaria che genera la babele di egoismi che l’attanaglia. San Martino, Santo Stefano primo re cristiano, Santa Elisabetta, fanno dell’Ungheria una terra di Santi, un popolo buono che costruisce ponti e non muri, che si rifiuta di fornire armi (a Kiev) in nome della pace tra i popoli. Sarà anche per questa sua predilezione all’unione, riconosciuta dal Santo Padre, che dalla città del Ponte delle Catene si lancia l’appello alla realizzazione di quel nuovo umanesimo europeo che sta tanto a cuore a Papa Francesco: “L’Europa, culla dei diritti e delle civiltà, è chiamata non tanto a difendere degli spazi, ma ad essere una madre generatrice di processi, quindi feconda, perché rispetta la vita e offre speranze di vita”. Ma la questione che si è ritrovato ad affrontare il Santo Padre è, come contestualmente in tutte le parti d’Europa, il processo di scristianizzazione in atto; chiese sempre più vuote tanto da chiedersi se riconvertirle a nuovi usi, battezzati che si definiscono non cristiani, praticanti sempre meno testimoni e chierici sempre più presenti nei casi di cronaca.
Le abiure in Germania sono solo l’inizio, un allarme che dovrebbe svegliare tutti i credenti, in questo il Santo Padre sembra essere davvero solo; il popolo lo acclama in piazza San Pietro ma lo dimentica nella quotidianità. Ci si vergogna dei casi di pedofilia, si prendono le distanze da una Chiesa concentrata su se stessa che fa fatica a condividere il messaggio evangelico, ci si allontana dalle regole che tengono nel buio; c’è bisogno di vivere ciò che si celebra, c’è bisogno di testimoni credibili che possano guidare i fedeli.
Purtroppo la moda di screditare l’altro per rallentare processi di rinnovamento, per evitare cambiamenti, per prevalere anche nelle più piccole parrocchie, legate al “si è sempre fatto così”, è uno stile adottato anche tra i prelati e questo infangarsi a vicenda, colpevoli o no, dà della chiesa un’immagine poco seducente; alla comunità dei primi cristiani, ardenti, che amavano raccontarsi e ascoltare le vicende del Risorto, abbiamo sostituito una comunità di persone tristi e depresse che parlano e sparlano senza cuore per cui nessuno guardandoli si vuole riconoscere. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35) è la sola cifra che contraddistingue i cristiani, ed è l’invito che dovrebbero accogliere le coscienze di tutti i battezzati, la guida che dovrebbero incarnare tutti i seminaristi, per essere futuri preti esperti in prossimità. La fratellanza umana parte da qui, l’ecumenismo affonda nell’amore reciproco le sue radici, la pace tra i popoli è solo una conseguenza.
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