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Il messaggio che arriva dagli Usa e quella decisione su Chico Forti. Ora il suo ritorno si allontana

di Redazione -


di MIRIAM NIDO
Sembra un pizzino l’ultima novità che arriva direttamente dagli Stati Uniti sul caso Chico Forti. Un messaggio per dire che, dopo la fuga della spia russa Artem Uss e le nomine sgradite, gli americani “liberano” anche i cani, ma l’italiano condannato all’ergastolo, in Italia, non tornerà. D’altronde, se l’Italia si è fatta sfuggire il prigioniero per il quale gli Usa avevano richiesto l’estradizione, che credibilità potrebbe mai avere oltreoceano che, qualora venga concessa la convenzione di Strasburgo, Chico sconti l’equivalente della condanna in galera? Già di per sé nessuna, se prendiamo in considerazione il fatto che il nostro ordinamento non prevede la stessa pena inflitta a Forti dalla Corte di Miami, che il 15 luglio 2000 ha condannato il produttore tv italiano all’ergastolo senza possibilità di condizionale, ritenendolo colpevole dell’omicidio di Dale Pike, avvenuto il 15 febbraio 1998. Insomma, per la giustizia americana Chico Forti, che si è sempre proclamato innocente, non avrebbe mai dovuto lasciare la cella del carcere di massima sicurezza, se non da morto. E quando il filmaker, giudicato colpevole in un processo nel quale l’accusa non è riuscita a dimostrare la sua colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, si è reso conto di non avere alcuna alternativa per far riaprire il suo caso, a seguito dei vari appelli rigettati dai giudici, ha deciso, suo malgrado, di accettare la condanna e dichiararsi platealmente colpevole, pur di poter accedere alla convenzione di Strasburgo, che consente a un detenuto di essere trasferito nel suo paese d’origine, per poter scontare il resto della pena nelle patrie galere. Forte della schiera di innocentisti che, in questi anni, hanno sostenuto la causa del produttore tv, Chico ha pensato che fosse l’unica soluzione: barattare il suo onore in cambio della possibilità di tornare in Italia, per riabbracciare la madre 95enne, Maria, e rivederla almeno un’ultima volta. Sapendo però che sarebbe rientrato in patria con il marchio da assassino, che lui ha sempre rifiutato, e che non sarebbe stato libero di rivedere la sua Trento, ma avrebbe dovuto comunque continuare a vivere in una cella, a meno della grazia da parte del Presidente della Repubblica. Così Chico Forti aveva invocato la convenzione di Strasburgo, consapevole tra l’altro delle criticità del suo caso, controverso non solo per la pubblicità negativa che l’onda innocentista ha creato al sistema della giustizia americana, ma soprattutto perché gli Stati Uniti non hanno mai concesso la Convenzione di Strasburgo a detenuti con l’ergastolo senza possibilità di condizionale. E in un Paese dove ogni sentenza diventa un precedente, la concessione del trasferimento in patria a Chico aprirebbe la porta a una marea di ricorsi che metterebbero in imbarazzo gli Usa. Nonostante tutte le difficoltà sul cammino, inaspettatamente, poco prima di Natale 2020 l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio era uscito con un annuncio trionfante: “Ho una bellissima notizia da darvi: Chico Forti tornerà in Italia. L’ho appena comunicato alla famiglia e ho informato il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Il Governatore della Florida ha infatti accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia”. Un messaggio su Facebook che faceva prevedere l’imminente trasferimento del produttore tv nel nostro Paese. E quando Forti era stato spostato dal penitenziario di massima sicurezza di Miami a una struttura dove sono reclusi tutti detenuti stranieri in attesa di trasferimento, il gioco sembrava fatto. Peccato però che la firma del governatore Ron DeSantis era solo il primo degli scogli da superare, perché a quella doveva seguire il parere positivo della giustizia federale degli Stati Uniti, rimasta silente per quasi tre anni, viste le resistenze che ancora permangono tra i giudici che hanno trattato il caso Forti e la lunga lista d’attesa delle domande di accesso alla Convenzione, presentate prima di quelle dell’italiano. Un barlume di speranza si è riacceso quando Giorgia Meloni, che ha sempre sostenuto la causa di Chico Forti, è diventata premier e ha garantito all’italiano e a Gianni Forti, zio di Chico, che avrebbe avviato una negoziazione diplomatica con gli Stati Uniti per riportare in Italia il condannato alla prigione a vita. In questi mesi lo stesso ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha affrontato la questione con il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, e per la famiglia Forti si è riaccesa la speranza che Chico sarebbe presto tornato a casa. “Io mi fido ciecamente della presidente Giorgia Meloni, sono costantemente in contatto con lei e mi ha assicurato che la questione del rientro in Italia di Chico è sempre una sua priorità. Spera di risolvere a breve termine la questione”, ha detto Gianni Forti a L’Identità. “Chico merita di rivedere almeno per un’ultima volta sua mamma Maria”, aggiunge Gianni, “e pur di tornare si è dichiarato colpevole, nonostante sia sotto gli occhi di tutti l’ingiustizia che ha subìto, come dimostra il libro Senza prove della giornalista Rita Cavallaro, che ha pubblicato in esclusiva un processo farsa che dimostra come nessuna giuria attenta avrebbe potuto giudicarlo colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Ormai”, ha spiegato, “quel capitolo sulla battaglia per il suo onore è chiuso, quello che conta è che possa tornare nella sua patria”. Un rientro che, alla luce degli ultimi eventi, sembra destinato ad allontanarsi sempre più. In bilico per le tensioni che si sono create a seguito della nomina di Paolo Scaroni all’Enel, sulla quale gli Stati Uniti avevano messo il veto in quanto il manager paga le apertura a Vladimir Putin e i favori a Gazprom. E anche per la fuga di Artem Uss, il trafficante di armi figlio del governatore russo vicino a Putin, che gli americani volevano a tutti i costi. Due errori in grado di avvelenare i pozzi e mettere a rischio le relazioni tra Italia e Usa, finora alimentate dall’atlantismo granitico di Giorgia Meloni, la quale era riuscita a tenere a bada perfino le ombre che si addensano da tempo attorno alle pulsioni filo russe della Lega e dello stesso Silvio Berlusconi, tanto da sollevare dubbi oltreoceano sul credito dei soci di maggioranza. Tanto che il viaggio a Washington della premier, annunciato da tempo, non è stato ancora fissato. E da Miami arriva, come una sorta di lupus in fabula, la lettera di Chico Forti, con la quale denuncia che l’amministrazione carceraria gli ha comunicato che il suo cane Java, un golden retriever che l’italiano stava addestrando nel carcere di Florida City, gli verrà portato via. Il produttore tv, che nel penitenziario è proprio addetto alla cura e all’addestramento di cani per i servizi sociali, era molto legato al cucciolo e aveva manifestato l’interesse di poterlo adottare, convinto che sarebbe stato trasferito in Italia in tempi brevi. La risposta degli Usa non è tardata ad arrivare: il suo Java verrà liberato, ma lui a casa non tornerà. “Speravo nella mia partenza anticipata con la possibilità di adottarlo, ma non andrà così”, ha scritto Chico in una lettera a Libero, carica di emozione e tristezza. Perché questo segnale, agli occhi di un uomo che ha resistito 23 anni in carcere proclamandosi innocente, sembra quasi un messaggio subliminale del papesche lo ha ridotto in catene e che oggi gli vuole comunicare che non lo lasceranno andare via, perché solo Java può essere libero. Lui, invece, è l’assassino di Dale Pike, il figlio dell’anziano albergatore a cui, per l’accusa, Forti voleva sottrarre il Pike hotel di Ibiza con una truffa, alla scoperta della quale Dale si è messo in mezzo e Chico, per liberarsi dell’ostacolo, ha architettato il delitto. Per poi mentire alla polizia, dicendo che aveva visto il giovane quando era andato a prenderlo all’aeroporto, poco ore prima che venisse ammazzato. Ma Chico è stato l’ultimo a vedere Dale Pike vivo e, per la giuria, è stato lui a portarlo al macello, come un agnello sacrificale.

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