Politica

E tu di che centro sei?

di Redazione -


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO
Trent’anni fa Silvio Berlusconi fece il suo ingresso in politica andando a riempire il vuoto aperto da Tangentopoli, che mise fine al sistema politico e partitico che si era consolidato nei cinquant’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, sbandierando un programma politico piuttosto chiaro. Berlusconi si presentava come leader di un movimento di opinione, oltre che naturalmente di un partito-azienda, che ambiva a creare uno schieramento liberale in politica, liberista senza forzature in economia, laico nelle scelte di vita individuale, dichiaratamente europeista. Naturalmente, al netto delle sparate propagandistiche e anche a prescindere dai giganteschi conflitti di interesse che hanno gettato più di un’ombra su molte delle scelte compiute, anche questo, come ogni programma, è rimasto sostanzialmente sulla carta. E anzi, si può affermare che il progetto berlusconiano volto a modernizzare un Paese bloccato dal consociativismo e dalle rendite di posizione non ha mai preso abbrivio, bloccato dalla necessità di tutelare il bene primario: il suo patrimonio personale. E anzi, se si guarda alla sua eredità politica, è possibile ritrovare nello scenario politico in cui ci oggi ci ritroviamo diversi elementi da guardare con preoccupazione. Primo fra tutti, la miscela di populismo e leaderismo tenuta insieme dalla biografia e dalla mitologia del suo esponente.
È stata questa la discontinuità introdotta da Berlusconi nel sistema politico italiano, ossia il tentativo di introdurre una forma di democrazia plebiscitaria fondata sull’onnipotenza della maggioranza, una sorta di autoritarismo popolare, o di dispotismo indiretto, per cui ci si appella al potere costituente del popolo per sovvertire quelle stesse istituzioni di cui peraltro ci si serve per governare e che, nella versione che ne dà oggi la destra, vanno delegittimate sotto i colpi di una rivoluzione conservatrice messasi al servizio di una controrivoluzione culturale. Questo modo post-liberale di pensare la democrazia viene talvolta considerato come una diretta conseguenza del potere conferito ai cittadini di scegliere la coalizione destinata a governarli, esercitata in nome e in funzione di un potere costituente del popolo che non può e non deve trovare nei poteri costituiti limiti e ostacoli.
Ciò nonostante, il berlusconismo non è stato una forma di rappresentazione capace di sostituire la rappresentanza e di creare un gioco reciproco di specchi tra il leader carismatico e il suo popolo, per cui la parola dell’uno è soltanto l’eco della parola dell’altro. È stato anche il fenomeno politico nel quale una parte non trascurabile del nostro Paese, il mondo dell’impresa e dell’innovazione, ha ritenuto di poter investire nella speranza di trovare qualcuno in grado di promuovere riforme efficaci e coerenti, in grado di contrastare il declino del nostro Paese anche a costo di infrangere le regole scritte e non scritte che avevano tenuto in piedi la Prima Repubblica. Non è andata così, ovviamente. La consacrazione quotidiana del carisma egemone che si riassume nella perfetta aderenza tra l’Eletto e il popolo è risultata sostanzialmente fine a sé stessa e non ha risolto nessuno dei mille problemi rispetto ai quali il mondo dell’impresa chiedeva una soluzione.
Eppure quei problemi, dalla carenza di infrastrutture alla mancanza di manodopera, dalle lentezze burocratiche alla insufficiente digitalizzazione di piccole e medie imprese alla crisi energetica, che ha pesato non poco su molte attività e imprese, sono ancora tutti sul tappeto. Per questo, se esiste oggi una figura politica sulla quale è probabile che quel mondo possa oggi scommettere è quella di Matteo Renzi, probabilmente l’uomo politico in maggiore sintonia con le esigenze dei ceti produttivi. Senza, oltretutto, la zavorra del partito-azienda e di un modello di politica della comunicazione dove i contenuti si adattano ai sondaggi, quando invece dovrebbe essere il contrario. L’obiettivo su cui Renzi dovrebbe scommettere è diventare il riferimento per il mondo dell’impresa, e in particolare per quel mondo che guarda all’innovazione e alle trasformazioni tecnologiche basate su automazione e interconnessione, che stanno trasformando sia il modo di lavorare che quello di vivere e le cui opportunità non vanno demonizzate, come accade invece con il governo in carica. Renzi può essere, in questo senso, il vero erede più che di Berlusconi, la cui figura politica e umana non è replicabile, ma del suo elettorato e delle sue esigenze di modernizzazione, sostenute da una cultura del lavoro che crei nuova occupazione, snellisca il carico burocratico, incentivi gli investimenti dei nostri imprenditori e attiri capitali stranieri. Ovvero dell’Italia che abbandona la rendita e i privilegi acquisiti e scommette sul lavoro, lasciandosi alle spalle il sovranismo conservatore, nazionalista e corporativo, che fa della chiusura delle frontiere e dell’ossessione identitaria la sua principale cifra politica. Può darsi che non ci siano praterie elettorali pronte ad aprirsi davanti a un programma di questo genere, e l’ormai conclamato fallimento del Terzo Polo certo non aiuta, ma l’unica, probabilmente, è provarci. L’intendance suivra.

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