Cultura & Spettacolo

IL TABARRO E QUEL MAGISTERO SINFONICO DI PUCCINI

di Redazione -


DI RICCARDO LENZI
Serata noir al Teatro dell’Opera di Roma, con la messa in scena nella stessa occasione de “Il tabarro” di Giacomo Puccini e “Il Castello del principe Barbablù” di Bela Bartok (spettacoli in replica fino al 18 aprile). Ci sono le motivazioni che vanno di moda, per questo abbinamento, ovvero la violenza di genere, ma è dal punto di vista musicale che pare azzeccatissimo. Solo cinque anni separano “Il Castello” (1911) da “Il tabarro” (1916) e le affinità sono sorprendenti. L’ennesima dimostrazione del magistero sinfonico del lucchese, la cui orchestrazione di questa partitura è la vetta di tutta la musica italiana composta per il palcoscenico, spesso criticata per la soverchia importanza data alle voci rispetto allo strumentale. Giusto merito va quindi riconosciuto all’orchestra dell’Opera e al suo direttore Michele Mariotti, che l’hanno valorizzata. Se poi per un attimo mettiamo in secondo piano la natura ipermusicale di Puccini e il suo modo di sentire armonicamente la melodia, è facile desumerne che egli ha scritto i primi romanzi musicali della storia del nostro melodramma: romanzi sceneggiati e non tragedie concepite con le regole della formula classica, come sono quelli creati dai suoi illustri predecessori (Verdi docet). Nell’approcciarsi di romanticismo e nascente verismo era infatti conchiusa la sua visione poetica e “Il tabarro” è un racconto in cui lo strumentale di Puccini e le sue connesse ricerche armoniche riescono a ricreare sapientemente una complessa atmosfera: «Quello che m’interessa», scrisse, «è che la signora Senna (il fiume dove è ambientata la vicenda, ndr) diventi la vera protagonista del dramma». Valido apporto ha dato Luca Salsi nel ruolo di Michele: egli evita coscientemente una certa tradizione della “scuola del muggito”, dettata in questo ruolo da Tito Gobbi, e canta sempre, modulando con infallibile istinto musicale ogni sillaba del parlato, con acuti aperti e voluminosi e un fraseggio espresso con varietà e incisività. Anche Maria Agresta nel ruolo di Giorgetta, la moglie infedele, è una fraseggiatrice sensibile ed esprime pienamente il suo forte temperamento di attrice-cantante tragica. Dal canto suo il timbro pastoso di Gregory Kunde, il consueto terzo incomodo, è l’ideale per la parte di Luigi, dominando con maestria la formidabile tessitura, ammorbidendola d’una dolcezza vellutata, certamente figlia dei suoi immaginifici trascorsi rossiniani. “Il Castello di Barbablù” rispecchia nel libretto di Bela Balazs i suoi intenti estetici: si ispirava indirettamente al dramma di Maeterlink, adattato in opera qualche anno prima da Paul Dukas. La trama però fu leggermente mutata per far sì che i due protagonisti, il principe Barbablù e la moglie Judith, rimanessero sul palcoscenico per tutto il tempo dell’esibizione. L’occasione per dar pieno sfoggio di sé a una maestosa orchestra sinfonica di stampo tardoromantico e ai due protagonisti vocali. Szilvia Vörös (Judith) ha una voce dal timbro variegato, tonda e anche in grado di eseguire bene le agilità e di sfoggiare piani e smorzature suggestive. E Mikhail Petrenko (Barbablù) che, oltre alla bella presenza scenica, ha un’altisonante e aristocratica voce da basso-baritono. La regia di Johannes Erath, nella sua irrilevanza composta dai consueti effetti animati dagli scontati video che tanto vanno di moda, da immagini pittoriche volte a nobilitare l’apparato citazionistico, impalcature popolate da mimi eccentricamente agitantisi, ha avuto perlomeno il merito di mettere in risalto il notevole evento musicale. Il “Trittico ricomposto” vedrà nelle future puntate programmate dall’Opera di Roma il “Gianni Schicchi” di Puccini affiancato all’ “Heure espagnole” di Maurice Ravel. L’anno successivo “Suor Angelica”, sempre del lucchese, sarà accostata a “Il prigioniero” di Luigi Dallapiccola.

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