Cortina fumogena
Più che il fallimento nell’accertamento della verità, quello che dopo trent’anni pesa come un macigno sulla strage di via D’Amelio sono le parole messe nero su bianco dai giudici del processo sui depistaggi nell’attentato a Paolo Borsellino, fatto saltare in aria da un’autobomba piazzata sotto casa della madre, il 19 luglio 1992. Perché le motivazioni, esplicate in 1.400 pagine di sentenza nel tentativo di ricostruire i movimenti degli attori coinvolti nelle diverse fasi dell’agguato, infittiscono ancor più le ombre, soprattutto sulla sparizione dell’agenda rossa del giudice Borsellino. E non fanno altro che alimentare i sospetti non solo sull’esistenza della trattativa Stato-mafia, ovvero quella rete di pezzi delle Istituzioni impegnata ad “aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”, per citare la Corte d’assise d’appello di Palermo, che il 23 settembre 2021 aveva assolto gran parte degli imputati condannati in primo grado, tra cui l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, tutti e tre del Ros. Ma le motivazioni dei giudici di Caltanissetta aprono la pista alla congettura temporale, facendo ipotizzare che fu proprio quello il principio di tutto, quando l’agenda rossa di Borsellino sparì dalla scena del crimine e i segreti contenuti al suo interno possano aver dato vita a intrecci tra Stato e mafia, al ricorso ai falsi pentiti per mettere in atto i depistaggi, a “ricostruzioni manipolate” e “amnesie istituzionali”, sostengono i giudici nisseni, su fatti ormai così lontani nel tempo per poter essere accertati fino in fondo. È su queste basi che lo scorso luglio sono stati prosciolti gli imputati nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, le cui motivazioni sono state depositate mercoledì. Il collegio, che doveva sentenziare sul reato di calunnia aggravata nell’aver favorito la mafia, ha dichiarato prescritta la posizione di Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti alla sbarra, e ha assolto il terzo, Michele Ribaudo, perché il fatto non costituisce reato. La sentenza, però, non si limita al ruolo dei poliziotti, che avrebbero dovuto indagare sulle stragi e che, invece, secondo l’accusa, avrebbero mistificato la verità assoldando, con il coordinamento del loro capo Arnaldo La Barbera successivamente deceduto, i pentiti Vincenzo Scarantino, definito “mentitore professionista”, Francesco Andriotta e Salvatore Candura, e costringendoli ad accusare altre persone, sette delle quali furono condannate e poi del tutto scagionate in un processo di revisione reso possibile grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, il quale svelò il depistaggio operato dai falsi pentiti, rivelando di essere stato lui, e non Scarantino, a rubare, su mandato dei boss di Brancaccio, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, la Fiat 126 esplosa con i 50 chili di tritolo che non lasciarono scampo a Borsellino. I giudici di Caltanissetta, che reputano tutta la storia “incredibile”, puntano sulla “partecipazione (morale e materiale) alla strage di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. Lo dimostrerebbe “l’anomala tempistica dell’eccidio (avvenuto a soli 57 giorni da quello di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”. D’altronde, per i giudici, “la presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo ai clan si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti, come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”. Infine c’è tutta la questione della sparizione dell’agenda rossa di Borsellino, sulla quale il giudice ammazzato aveva appuntato riflessioni molto delicate, secondo il racconto dei suoi familiari. Si trattava dunque del diario segreto su Cosa nostra. Un reperto chiave, in grado di scatenare l’inferno o di ripristinare la pace, a seconda delle mani in cui sarebbe finito. E per i giudici, l’agenda non è stata sottratta dalla mafia: “Può ritenersi certo che la sparizione non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra”. Chi l’ha presa allora? Uomini dello Stato, ma non sapremo mai chi. “Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda”, sottolineano, “ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre”. E se l’uomo che portò via l’agenda rossa non sarà mai individuato, è colpa di testimoni che “consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni, tra l’altro più volte rivedute e stravolte, rese dai protagonisti della vicenda che non permettono una lettura certa degli eventi aumentando la fallacia di qualsivoglia conclusione tratta sulla sola base della combinazione tra le varie testimonianze”. Il collegio bacchetta soprattutto l’ex giudice Giuseppe Ayala, all’epoca fuori ruolo dalla magistratura e impegnato in politica: “Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato, appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda”. Per i giudici “restano insondabili le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione, peraltro su plurime circostanze del narrato”. E un’ultima stoccata: Paolo Borsellino “si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale”.
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