Carmen e la riscoperta dell’umanità nuda
di RICCARDO LENZI
Era presente alla prima della “Carmen” fiorentina Onofrio “Ninni” Cutaia, il dirigente del ministero che dovrà mettere a posto i conti del Maggio Musicale. Speriamo che non pensi di tagliare il grande Zubin Mehta, direttore che, nonostante i problemi di salute e l’età avanzata, assicura sempre la considerevole qualità delle sue interpretazioni, senza soverchi problemi stilistici nel repertorio, sia che affronti Mozart, Puccini, Wagner o, appunto, Bizet. Sempre di alto livello, sia negli accompagnamenti che nelle pagine puramente strumentali; con tempi e timbri molto ben dosati, sfondi sonori amplissimi, il giusto risalto ai contrasti dinamici, in generale animato dal fine di darci un’accurata nitidezza di suono, grazie anche a un’orchestra che lo segue con applicazione e il dovuto rispetto, esibendo al momento del coinvolgimento le notevoli qualità delle prime parti. In questa “prima” (le repliche sono previste fino al 16 aprile) hanno conquistato il pubblico i tempi “giusti”, pienamente appaganti, nell’accompagnamento della habanera, nell'”Intermezzo” e nel gran finale, come previsto dalla partitura, pletorico e vorticoso. Altra grande protagonista nel ruolo del titolo è stata Clementine Margaine. La sua voce è insinuante, sensuale, imperiosa, con qualche screziatura esotica nel registro basso: intuizione azzeccatissima, perché come osservava Mario Praz ne “La donna, la carne e il diavolo nella letteratura romantica”, ideale esotico e ideale erotico si compenetrano perfettamente. Voce che sa essere diretta, intensa e dura come un diamante. L’occasione per ricordare una riflessione che fece Massimo Mila: in questo personaggio si può scorgere un analogo di quel che aveva proposto Courbet nella pittura, ovvero il passaggio dall’accademia all’immediatezza, un confronto fra l’occhio del pittore e la realtà naturale sotto specie di colori, di volumi e di luci, dove Carmen è la riscoperta dell’umanità nuda, priva di orpelli e sovrastrutture culturali e teatrali. Sotto l’impressione di questa lettura la voce della Margaine al momento degli acuti, psicologicamente, sembra quasi intimorire il timido Don José di Francesco Meli. Che è un pochino azzimato, perfettino, parecchio studiato, memore delle stilizzazioni liriche di Leopold Simoneau: voce chiara la sua, lirica, elegiaca, agli antipodi dello spartano universo verista evocatoci da Mario Del Monaco. Negli altri ruoli si comportano secondo buona routine Valentina Naforniță (Micaëla) e Mattia Olivieri (Escamillo), forse un po’ meno sensuale e guascone delle nuances che gli offre l’edonistica orchestra mehtiana. Un gruppo di talenti ed ex talenti dell’Accademia del Maggio dà corpo al resto del cast. Regia minimalista e parodistica, proveniente da una vecchia produzione zurighese di Matthias Hartmann, con una una scena spoglia organizzata su una grande piattaforma incurvata, complicata da sporadici elementi che vorrebbero essere altamente simbolici (all’apparizione di un paio di corna che forse vorrebbero evocare la “plaza de toros” il solito fiorentino malizioso commenta spavaldamente ad alta voce: «Quelle mi rappresenterebbero le corna di Don Josè?»), ovviamente con i costumi moderni: i gitani, fra i pochi elementi d’arredo, hanno un piccolo televisore che trasmette una partita, così, tanto per salvare l’alibi problematizzante. Finale secondo tradizione, con la coltellata di Don José che distrugge i sogni di Carmen. Comunque meglio di cinque anni fa sempre al Maggio, quanto il regista Leo Muscato in nome di uno pseudofemminismo imperante decise che l’eroina di Bizet non doveva morire accoltellata, ma che anzi doveva uccidere l’ex amante con una pistolettata, idea che suscitò l’elogio implacabilmente buonista del sindaco di Firenze Nardella. Per fortuna l’arma sul più bello s’inceppò, salvando così il rispetto del libretto originale.
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