Addio vecchio dollaro, scacco agli Usa Ora Macron paga il gas cinese in yuan
La Francia fa affari in yuan. A Washington, evidentemente, non l’avranno presa benissimo. Il dollaro continua a perdere pezzi e, di questo passo, il ruolo della moneta Usa come valuta internazionale di riserva rischia, seriamente, di essere incrinato. La notizia, dopo l’accordo di martedì scorso, è stata lanciata da Reuters e, immediatamente, è rimbalzata un po’ ovunque nel mondo. In particolare, è stata rilanciata in Oriente, in quei Paesi che iniziano a sgomitare per ritagliarsi un posto in un mondo multipolare. I francesi di Total Energies, colosso di Stato transalpino dell’energia, ha stretto un accordo con il gigante asiatico della China National Offshore Oil Company. Si tratterebbe di una fornitura di gas naturale liquefatto da 65mila tonnellate dagli Emirati Arabi Uniti, acquistata in moneta cinese, in yuan, per il tramite della piattaforma Shangai Petroleum and Natural Gas Exchange, la “borsa” asiatica dei prodotti fossili. Pechino ha segnato un punto: una potenza europea non pagherà né in dollari né in euro e nemmeno in rubli, bensì utilizzando la moneta cinese.
“Una loro richiesta”
Stando a quanto riporta il giornale economico francese La Tribune, Total Energies avrebbe semplicemente adempiuto a una richiesta che era stata avanzata dalla controparte cinese. Certo, si tratta di una transazione avvenuta in termini a dir poco inediti. Ma non ci sarebbe troppo da stare a preoccuparsi. Una rondine non fa primavera, il problema non è nemmeno francese. Ma è, in prima battuta, americano. Già perché le transazioni sul mercato degli idrocarburi avvengono in dollari. Anzi, in “petrodollari”. Il problema, per gli Usa, è che l’appeal della soluzione escogitata quasi cinquant’anni fa per rilanciare il dollaro, adesso sta diminuendo parecchio. E la Cina si sta facendo protagonista assoluta di una nuova stagione di antagonismo internazionale nei confronti degli interessi statunitensi. In particolare, Pechino – che punta alla creazione di un mondo multipolare – sta creando le infrastrutture utili (sia fisiche che economiche e diplomatiche) per creare scavalcare il biglietto verde per sostituirlo con il suo, quello rosso, con lo yuan.
Adelante de-dollarizzazione
Solo qualche giorno fa, la Cina ha concluso un importante accordo con il Brasile di Lula. Gli scambi commerciali tra i due Paesi saranno regolati attraverso pagamenti in yuan e in reais, la moneta brasiliana. Non sarà utilizzato nemmeno un dollaro. E, soprattutto, sarà scavalcato l’euro che, negli anni passati, era stato utilizzato dalle potenze emergenti come succedaneo del dollaro nelle transazioni internazionali. Ma c’è di più. Brasilia, infatti, starebbe puntando a un asse con Buenos Aires. L’obiettivo sarebbe quello di trascinare l’Argentina nel gruppo del Brics. Sarebbe un colpaccio: nonostante l’inflazione e la crisi perenne, lo Stato argentino è potenzialmente ricchissimo. Di risorse naturali e non solo. In ballo, poi, c’è il progetto Sur. Che, per il Financial Times, sarebbe quello di una moneta comune panamericana. E che, per altri osservatori, sarebbe un tentativo di riportare in vita il Sucre, il progetto di interscambio bolivariano lanciato da Cuba che, nel novembre del 2008, voleva affrancare la Latinoamerica dal dollaro. Ma che riuscì a raccogliere solo l’adesione di Venezuela, Bolivia, Nicaragua ed Ecuador. Quella volta fu un fallimento, ma adesso c’è Pechino. E, soprattutto, ci sarebbero due delle maggiori potenze regionali.
L’ultimo “tradimento
”Non è la prima volta che le aziende energetiche pagano le loro forniture in una moneta che sia diversa dal dollaro, anzi dal “petrodollaro”. L’ultima volta è successo qualche mese fa, a ridosso dell’inizio della guerra tra Russia e Ucraina. Quando, da Mosca, il Cremlino impose che, dopo l’applicazione delle sanzioni internazionali tra cui l’estromissione dal sistema bancario Swift, le transazioni su petrolio e gas fossero regolate in rubli. Le aziende energetiche aprirono i loro conti, in rubli, presso la Gazprombank. Tra queste, anche l’italiana Eni e la tedesca Uniper insieme ad almeno una decina di altre importanti aziende europee. Da allora, la volontà politica dell’Ue è stata quella di estromettere, del tutto, la Russia dal novero dei fornitori di idrocarburi. Un obiettivo che, in Italia, ha dato vita al cosiddetto Piano Mattei. Proprio per evitare di continuare a sostenere l’economia della Federazione.
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