Cultura & Spettacolo

SERGEJ RACHMANINOV: NELLE MANI DEL GENIO

di Redazione -


Il primo aprile ricorre il 150° anniversario dalla nascita di Sergej Rachmaninov, un autore spesso criticato per non aver seguito l’evoluzione del linguaggio novecentesco e per essere rimasto ancorato a un romanticismo ritenuto antiquato. Sommo pianista, tra i più grandi in un’epoca che non è stata certo avara di virtuosi della tastiera, Rachmaninov non riuscì a farsi accettare come compositore, soprattutto dal pubblico e dalla critica europei. Il pubblico applaudiva in lui l’ultimo dei grandi pianisti-compositori di stampo ottocentesco e voleva sentire sempre e soltanto le sue composizioni pianistiche, possibilmente suonate da lui stesso, mentre non riusciva ad apprezzare i suoi lavori più ambiziosi, come le sinfonie, da cui Rachmaninov sperava d’ottenere il pieno riconoscimento della propria levatura di compositore. La critica lo considerava lo stantio rappresentante d’un romanticismo relegato a melenso psicologismo sentimentalistico, un compositore datato, che si ostinava a scrivere musica senza limitarsi ad accettare il ruolo più confacente di eccelso pianista. Non la pensava così un critico musicale insofferente ai luoghi comuni come Paolo Isotta, che lo considerava «un grandissimo». Un formidabile operista che per coro «ha lasciato opere addirittura sublimi» come i “Vespri” opera 37 e la “Liturgia di San Giovanni Crisostomo”. Senza dimenticare la Seconda sinfonia «una delle più importanti del Novecento». Riccardo Chailly che di questa sinfonia ci ha lasciato una memorabile versione (come del Terzo concerto per pianoforte e orchestra, con Martha Argerich), è un altro alfiere di Rachmaninov. Questo perché, ha più volte dichiarato, è un musicista senza preconcetti. Rachmaninov ha creato capolavori di grande complessità esecutiva. In questo senso fu per Chailly memorabile la prima volta che ascoltò la sua Terza sinfonia. Erano i primissimi anni Ottanta, era a Berlino e andò alla Philharmonie, dove la dirigeva Lorin Maazel. Quando andò a salutarlo, Maazel, esperto virtuoso della bacchetta, gli chiese: «Ma tu hai capito la complessità musicale di questa partitura?». Una riflessione nient’affatto banale, perché questa musica è sì di piacevolezza estrema, diretta, ma ha delle insidie interne che rendono quasi ogni battuta molto complessa. Un’altra significativa testimonianza la troviamo nelle memorie del grande violinista Nathan Milstein. Vi è un illuminante capitolo dedicato a Rachmaninov: «Prima della Rivoluzione, Sergej aveva vissuto in una grande tenuta in Russia, e in Svizzera aveva continuato a essere un appassionato di giardinaggio. Creò una specie esotica di rose nere, molto belle anche se non erano esattamente nere, bensì di un colore rosso cupo o porpora scuro. Fu un evento sensazionale, arrivarono i fotografi e le rose comparvero sulle foto dei giornali e delle riviste. Ma il loro colore così scuro non era adatto alle foto in bianco e nero che non potevano mettere in sufficiente risalto la loro bellezza». Un’azzeccata metafora per la musica del russo: la rosa vista da lontano sembra nera e invece è di un rosso cupo. Il senso della tragedia si imprime in essa di pari passo con un irresistibile vitalismo espressivo. Anche l’ascoltatore più inesperto potrà avvertire nei quattro concerti per pianoforte e orchestra queste visioni, impregnate di tenerezza e di decadenza. Immortalato nelle colonne sonore di vari film, il primo tempo del Secondo concerto è esemplare nel rendere palpabile questa malinconia, resuscitante il ricordo nell’accezione proustiana. Motivi che ricorreranno negli appuntamenti dell’Orchestra sinfonica di Milano, 13-23 aprile, con un programma che traccerà un ritratto del compositore, presentando l’integrale di questi concerti con Alexander Romanovsky al pianoforte e la direzione di Claus Peter Flor. Proponendo una gustosa e raffinata sciccheria: ad ogni serata ciascun concerto sarà affiancato da altri lavori di compositori coevi (Ravel, Debussy ed Elgar).

Torna alle notizie in home