INGIUSTIZIA – Quelle vittime sempre dimenticate
DI ELISABETTA ALDROVANDI
Il Festival di Sanremo è finito. E, polemiche a parte, che hanno occupato la scena più degli artisti e delle canzoni, è passato sotto tono il monologo di Francesca Fagnani, dedicato ai giovani detenuti e alla necessità di adottare strumenti che prevengano e impediscano di avviarsi verso la strada della criminalità. Un intervento pregevole. E pienamente condivisibile. Un giovane che inizia a delinquere difficilmente ha la possibilità di raddrizzarsi uscendo dal tunnel dell’illegalità, che spesso lo porta, in un’escalation inesorabile, a commettere reati sempre più gravi. D’altronde, siamo affetti da una specie di imprinting sociale e culturale, prettamente italiano: non si è brave persone se non si prova pietà e comprensione per i detenuti, i quali vanno capiti, aiutati, sostenuti, perché sì, avranno anche sbagliato, però uno Stato di diritto deve garantire massima tutela e rispetto della dignità a tutti, pure a chi ha commesso crimini efferati. Giusto. Tuttavia, non può passare inosservato che manca un tassello. Quello dell’attenzione alle vittime. Se c’è uno stupratore, da qualche parte ci sarà una donna violentata. Se c’è un assassino, da qualche parte ci sarà una persona uccisa. Eppure, l’attenzione mediatica e la curiosità, a volte morbosa, è rivolta soltanto per l’autore del reato. La sofferenza della vittima interessa per il lasso di tempo necessario e sufficiente a suscitare empatia e sdegno per quanto ha subito, dopo di che lo sguardo si trasferisce su chi è stato capace di tanta crudeltà ed efferatezza. E lì, si scatenano indagini psicologiche, deduzioni basate più su sensazioni emotive che sul raziocinio, perché noi italiani siamo tutti allenatori della nazionale di calcio, virologi o investigatori, a seconda delle circostanze, capaci di elevarci a opinionisti tuttologi senza la benché minima base di cognizione di causa sull’argomento trattato. Piacciono i criminali perché piace il male, piace addentrarsi nelle pieghe più oscure e marce dell’animo umano, per vivere per interposta persona ciò che non si sarebbe mai capaci di fare, ma che se fatto da altri rende quell’altro un essere tanto spregevole quanto irresistibile.Questa fascinazione, invece, non appartiene alla vittima, perché il suo dolore pone di fronte all’impotenza consolatoria, e perché, sotto sotto, se una donna è stata violentata o un anziano truffato, in qualche modo è complice del reato subìto: chissà com’era vestita al momento dell’aggressione, tutti sanno che non bisogna dare fiducia a sconosciuti che chiedono soldi. Si è tutti più intelligenti, fino a quando la disgrazia non piomba addosso con la sua portata devastatrice. Sarebbe un compito doveroso, invece, riequilibrare i ruoli: smetterla di considerare chi commette reati come il frutto bacato di una società ingiusta, che si ritrova quasi costretto a violare la legge perché più sfortunato degli altri. E iniziare a dare il giusto peso a ciò che sembra dimenticato: il libero arbitrio. Perché, a fronte di milioni di persone che nascono e vivono in realtà disagiate, moltissimi sono coloro che decidono di vivere nel rispetto della legge. Adeguarsi alle regole sociali, così come violarle, è una scelta. Responsabilizzare appieno l’autore di un reato è fondamentale non solo per prevenire la criminalità, ma per determinare la giusta pena e dare piena attuazione alla funzione rieducativa della pena. Finché si cercheranno giustificazioni esterne, sarà assai difficile che chi delinque prenda piena coscienza del disvalore di quanto fatto, e assai facile che finisca col sentirsi vittima di quella società in cui egli stesso ha, per primo, prodotto vittime. Che restano confinate nel dimenticatoio, perché dopo un po’ il dolore inconsolabile stanca. E la ricerca di giustizia viene scambiata per desiderio di vendetta.
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