Attualità

INGIUSTIZIA – QUANDO LA VIOLENZA È DONNA

di Redazione -


DI ELISABETTA ALDROVANDI 

Un sabato sera come altri, in provincia di Brescia. Cena in famiglia tra marito, moglie e figlio quindicenne. Scoppia un litigio, uno dei tanti, si scoprirà poi. La donna prende un coltello e aggredisce il consorte alla gola. Sei coltellate, di cui una mortale alla carotide. L’uomo morirà dissanguato, in pochi minuti. Tutto questo accade davanti al figlio che, terrorizzato ma sufficientemente lucido, chiama il 118. Purtroppo, però, non c’è più nulla da fare. Gli operatori sanitari arrivati sul posto possono solo accertarne il decesso.
La moglie viene arrestata non nega il delitto, ma cerca altrettanto immediatamente di dare una spiegazione. Dai primi accertamenti risulta un clima familiare teso: l’uomo, non ancora sessantenne, aveva perso il lavoro pochi mesi fa, la moglie non lavorava. In casa con loro, inoltre, vive la mamma di lei, gravemente malata e bisognosa di cure e assistenza continua, e il figlio di quindici anni, mentre la primogenita abita fuori casa.
Insomma, una situazione non certamente facile da gestire e che facilmente può creare frustrazione personale e tensione familiare.
La donna, dopo l’arresto, avrebbe riferito alle forze dell’ordine che l’aggressione al marito sarebbe avvenuta perché questi aveva minacciato il figlio.
Lui viene descritto da parenti e vicini di casa come una persona autoritaria che però parlava bene della moglie. Lei come una brava persona, che non aveva mai dato segnali di una personalità incline alla violenza. Nessuna denuncia per violenza domestica era mai stata presentata, e non c’era una pratica di separazione in corso. La coppia era sposata da oltre trent’anni, e dai profili social emerge una situazione familiare “normale”: nelle immagini postate si vedono vacanze in famiglia, sorrisi e visi abbronzati, anche se si tratta di fotografie risalenti ad alcuni mesi fa.
Ma qual è la verità? Solo le indagini la verificheranno, e il processo, nonostante la chiara dinamica dei fatti, dovrà comunque celebrarsi, perché un’ammissione di responsabilità può mitigare la pena in caso di condanna ma non esime dall’obbligo di accertare i fatti, soprattutto se vi sono delle motivazioni che possono attenuarla.
Una differenza salta subito agli occhi: che quando è l’uomo a uccidere, immediatamente si parla del mostro aggressivo e violento, il che corrisponde spesso alla realtà.
Quando lo fa la donna, si tende subito a cercare giustificazioni, perché no, non è possibile che sia violenta, aggressiva, manipolatrice. Sicuramente c’è sotto qualcosa, come maltrattamenti non denunciati o un’esasperazione latente determinata dal comportamento maschile. La narrazione che, nei crimini domestici, vede l’uomo sempre colpevole e la donna sempre vittima non rende giustizia alle vere vittime. Che non hanno un’appartenenza di genere specifica a prescindere.

Ognuno deve essere responsabile delle proprie azioni, poiché, in base al nostro codice penale, la responsabilità penale è personale. E se ci sono attenuanti giuridicamente rilevanti il giudice le applica, partendo dal presupposto che, casi di legittima difesa a parte, non si può giustificare un assassinio per il fatto che il proprio compagno ha atteggiamenti prevaricatori o un carattere difficile. Esiste una cosa che si chiama “separazione”, e un’altra che si chiama “denuncia”: strumenti che la legge mette a disposizione per uscire da rapporti sentimentali diventati insostenibili e cui si vuole, e si può, mettere fine. Ma giudizi di colpevolezza o assoluzione in base al sesso, no. Vanno evitati, sempre.

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