Attualità

All’Europa non conviene la guerra all’impero del bene

di Alberto Filippi -


Ma gli Stati Uniti non erano l’impero del bene, mentre la Russia dei soviet era quello del male? La battaglia dei dazi, scatenata dal presidente Trump per proteggere la produzione domestica e la bilancia commerciale fortemente esposta per i beni importati dall’estero, ha fatto precipitare il gradimento statunitense in fondo alla classifica di tanti liberal che non si capacitano del muro isolazionista che all’apparenza Donald ha voluto innalzare. Ma è proprio così, detto che la batosta borsistica a tutte le latitudini è stata pesante, oppure il mainstream è troppo severo con il repubblicano uomo d’affari cui piace alzare l’asticella economica a un livello di pericolosità potenziale col timore di una recessione tra qualche mese? Oppure l’attuale caos sui dazi con le borse in palese difficoltà è prodromico a una svolta dopo che l’America avrà raggiunto un accordo ad esempio con l’Unione Europea, con Giorgia Meloni che potrà giocare un ruolo nella complessa partita a scacchi, e con la Cina, con la quale attualmente Trump volano gli stracci? Come sempre nell’analisi dipende da dove si colloca l’osservatore. Partiamo dal presupposto che non c’è globalizzazione senza regolazione, ma è anche vero che sui mercati le mani molto attive possono essere manipolatrici a qualsiasi latitudine. Certo, noi europei dobbiamo tutelare i nostri interessi, ma è risaputo che la Vecchia Europa ha alzato dazi importanti, pensiamo al settore automobilistico, verso gli Usa o al settore agricolo per tutelare la Francia, cosicché da noi le merci americane non toccano quasi palla. Finora a Washington hanno cristianamente sopportato, ma adesso è arrivato lo sceriffo che vuole riequilibrare la bilancia commerciale col mondo, in disavanzo di oltre 600 miliardi di dollari compresi i beni informatici e dell’intrattenimento che a volte Donald dimentica, perché il debito pubblico a stelle e strisce da 34,4 trilioni di dollari è superiore al Pil annuale di oltre 29,6 trilioni di dollari, che costituisce il 27% del pil mondiale. Dunque, tanto per capirci, fare la guerra alla più grande economia del mondo non conviene, tanto più che l’Italia registra un avanzo di 39 miliardi che il governo cerca giustamente di mettere in sicurezza. Come? Ad esempio non alimentando un antiamericanismo che non conviene a nessuno con una guerra delle tariffe. Non ci sfugge che il mondo globale è percorso da grandi divisioni sia orizzontali che verticali, legate non solo a gerarchie di potere, ma anche a culture e visioni legate alla sfera religiosa. Allora se globalizzazione e democrazia non sono per forza di cose antitetiche, sebbene in molti vedano la seconda in difficoltà per l’affermarsi in molti continenti di autocrazie, è altrettanto vero che le tensioni sui mercati finanziari di questi giorni, che potrebbero ribaltarsi su quelli dell’economia reale grippando la manifattura, inducono troppi osservatori al pessimismo. Noi invece crediamo che se la battaglia per i dazi qualche lacrima e sangue la produrrà, alla fine il “vecchio” Donald si renderà conto che la guerra a tutto campo rischierebbe di mettere in difficoltà gli Stati Uniti per primi e troverà un’uscita di sicurezza per salvaguardare gli interessi di tutti. Perché la globalizzazione è compatibile con la democrazia, e lo sviluppo capitalistico se è vero che procede a volte con brusche cesure, è altrettanto vero che l’impero del bene saprà raddrizzare il timone per non andare a scontrarsi con gli altri imperi, su tutti la Cina, che vogliono continuare a fare affari. “In God we trust”, c’è scritto sul bigliettone verde, e Donald non vuole certo strapparlo a tutti i costi.


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