L’omicidio di Garlasco, un processo esclusivamente mediatico?
Quella che improvvidamente potrebbe essere definita una svolta nel processo per l’assassinio di Chiara Poggi, dal punto di vista della procedura penale è già stata ben narrata su questa testata nei giorni scorsi e non c’è nulla da aggiungere. Un aspetto però può essere ancora sviscerato, la cadenza mediatica dei passaggi processuali, che si ripetono da molti anni. Più volte in questa rubrica si è evidenziato quanto l’intima coerenza dell’ordinamento penale, un tempo condizione essenziale della sua stessa esistenza, sia andata perduta a seguito della eccessiva libertà della quale si è autodotata la cosiddetta “giurisprudenza creativa”, ma che a questa coerenza perduta si vada sostituendo una coerenza “mediatica” non si voleva credere. Eppure questo sembra dirci il processo per l’omicidio di Garlasco. Diciotto anni sono passati da quel giorno e si vuole riaprire un fascicolo sul nulla più assoluto.
Il primo principio di declinazione del giusto processo è quello secondo il quale la ragionevole durata è un’esigenza fondamentale e deve venire prima di tutto. Trattandosi di un principio fondamentale anche per il Consiglio d’Europa, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia svariate volte proprio per l’eccessiva durata dei processi penali. Si tratta quindi di una reiterata violazione di un diritto umano fondamentale e come tale va considerata. Giustizia significa anzitutto giusto processo e non c’è per principio niente di tutto questo senza la ragionevole durata! Diciotto anni di incertezze, di esitazioni e di contraddizioni costituiscono oggettivamente solo una cosa: ingiustizia! E come si spiega questa riapertura del caso da parte della Procura di Pavia?
Si può ritenere il riferimento a tracce di DNA come il ritrovamento di una prova scientifica in grado di offrire la massima certezza come dovrebbe essere ed in effetti sarebbe se rilevato tempestivamente? Il luogo del delitto deve essere perlustrato con la massima cura ma può offrire elementi fondamentali solo nei primi giorni, settimane o mesi non certo oltre. L’unica garanzia che abbiamo oggi è che si riapre un caso di grandissimo richiamo televisivo e mediatico proprio perché non è stato possibile ottenere neanche una verità processuale. Sembra infatti direttamente proporzionale il rapporto tra il vuoto processuale di questa vicenda e il clamore mediatico che suscita. E chi scrive evince da questa relazione proprio il fatto che la stessa Procura, più o meno consapevolmente, agisca spinta dall’irrefrenabile impulso che induce la vastità della platea interessata alla morte di una ragazza come Chiara. Il suo presunto assassino, Alberto Stasi, è già stato condannato in via definitiva a 16 anni di carcere è quanto prospettato oggi dalla Procura di Pavia non sarebbe comunque sufficiente a riaprire il processo per scagionare Stasi.
Il principio di ragionevole durata del processo non significa solo tutela di un diritto umano fondamentale alla giustizia nelle vicende giudiziarie, dove il “giudiziario” c’è sempre, ed il “giusto” mai, significa anche efficienza nell’amministrazione dell’“ingiustizia” e in un sistema come il nostro che non funziona perché le risorse sono troppo scarse l’efficienza è particolarmente preziosa. Chiunque invece è in grado di apprezzare lo spreco che l’attività di una Procura come quella di Pavia costa ad un bilancio come quello del Ministero della Giustizia.
Ed oltretutto l’inutilità di un tale impiego di uomini e mezzi. Come uscire da questa situazione? Sanzionare gli sprechi nei tempi e nell’impiego delle risorse, come sempre quando si lavora sulle pubbliche amministrazioni. Una riforma della giustizia per i cittadini deve porre al centro la ragionevole durata dei processi come diritto umano e come criterio di efficienza amministrativa, anche perché solo in questo modo si può rendere un servizio migliore e riavvicinare magistratura e cittadinanza e ridare fiducia a quest’ultima.
Torna alle notizie in home