Il Paese dei salari bassi, cresce (poco) la retribuzione media oraria
Crescono, ma poco, i salari: in Italia, nel settore privato, la retribuzione oraria media ammonta a 11,75 euro. Ma la media, come insegna Trilussa, è un parametro che non tiene presente gli estremi. E si va, in questo Paese, dai 21,98 euro riconosciuti al nono decile fino, laggiù, all’ultimo scaglione, di coloro che non guadagnano più di 8,42 euro all’ora. I dati arrivano dall’Istat e si riferiscono all’annata 2022. Gli analisti dell’istituto nazionale di statistica rivelano che i divari, quelli sì, non accennano a diminuire. Si guadagna di più al Nord che al Sud, è riconosciuto un salario maggiore a chi è più anziano e dalle imprese di dimensioni importanti. In uno scenario che, complessivamente, conferma quello che sapevamo già, ossia che l’Italia vive di stipendi tra i più bassi d’Europa e, forse, solo la Bulgaria e la Romania riescono, in questi termini, a fare di peggio. I numeri snocciolati dall’Istat non mentono. La retribuzione oraria media per i laureati non è di molto superiore a quella generale: “appena” tre euro in più, si attesta a 14,89 euro. I lavoratori senior, quelli che hanno almeno 50 anni, incassano mediamente 12,85 euro mentre le imprese di dimensioni rilevanti riconoscono ai loro lavoratori 13,24 euro l’ora. Infine il divario territoriale: i lavoratori impiegati nel Nord Ovest del Paese sono quelli che incassano di più, vedendosi riconosciuta una paga oraria da 12,41 euro. Gli uomini, in media, sono pagati più delle donne: il divario di genere, in termini di retribuzione oraria media, è di novanta centesimi. La differenza, invece di attenuarsi, continua a salire rispetto al 2021. Ma non basta. Perché nel 2022 hanno incassato meno i giovani (10,5 euro l’ora), i dipendenti part-time (10,49 euro), i precari (10,58 euro), i dipendenti delle microimprese con meno di dieci occupati (10,67), persone originarie di Paesi stranieri (10,76).
Numeri che lasciano basiti e che sembrano spiegare perché l’Italia è un Paese da cui i giovani scappano e, chi resta, ci pensa (almeno) due volte prima di metter su famiglia. Cifre, quelle italiane, che almeno risultano in aumento rispetto all’anno precedente. Mentre diminuisce, secondo l’Istat, la quota di coloro che si ritrovano ingabbiati in un lavoro povero. O meglio, per dirla utilizzando un’espressione anglofona: low pay jobs. Nel 2021, il fenomeno riguardava il 6,6% della popolazione in età da lavoro, un anno dopo la quota è scesa al 6,2% interessando solo (si fa per dire) 1,3 milioni di persone. Inchiodati a paghe tanto basse da rendere quasi impercettibile il beneficio del lavoro ci sono gli apprendisti, che pesano per poco più di un quarto: 25,6% del totale della platea del lavoro povero. Seguono gli under 30 con una quota dell’11,3 per cento, quindi i precari (10,7%), coloro che vivono e lavorano al Sud (10,3%), lavoratori stagionali, a chiamata o intermittenza (15,5% per le posizioni con durata inferiore al mese e 10,4% per quelle con durata tra 1 e 3 mesi) e infine gli immigrati (9%).
Questi numeri non si comprendono, a pieno, se non si mettono a paragone con quelli europei. In tutta l’eurozona, infatti, i salari sono cresciuti del 4% mentre nell’intera Ue sono saliti del 4,4%. Le stime di Eurostat riferiscono che nel 2022 la retribuzione oraria media nell’area Ue è stata pari a 22,9 euro mentre, nella zona euro, il livello è salito fino a 25,5 euro. Il confronto è impietoso. E diventa ancora più sferzante se si considera che, poco più a nord, in Germania, si dibatte se portare il salario minimo a 15 euro l’ora. Una situazione che conferma come l’Italia si regga, ancora una volta, sui sacrifici di chi lavora, di chi stringe la cinghia e che le imprese continuano a puntare la loro competitività giocando al ribasso sulle retribuzioni.
Una vicenda su cui s’interroga la politica che, da tempo, dibatte sull’opzione del salario minimo. Per far uscire dalla povertà e restituire dignità ai lavoratori. Ma col rischio, però, di schiacciare tutto verso il basso. È questa, difatti, l’analisi di Daniela Fumarola, neo segretaria generale della Cisl succeduta da poche settimane a Luigi Sbarra: “Siamo contrari a un salario minimo legale perché significa schiacciare verso il basso le retribuzioni. Va recuperata l’azione contrattuale”. E ancora: “Pensiamo che laddove esistano retribuzioni basse, queste vadano portate assolutamente più in alto attraverso la contrattazione, che non è solo salario ma anche ferie, tredicesima, orari di lavoro, welfare”. Fumarola, intervistata a XXI Secolo su Rai Radio 1 ha affermato che occorre: “Riportare le materie del lavoro all’interno della contrattazione per noi è fondamentale”. La posizione, però, non è monolitica e, anzi la Cgil di Maurizio Landini si batte per l’introduzione, in Italia, del salario minimo in attuazione alle direttive europee.
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