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PRIMA PAGINA – Perché Sanremo non è più Sanremo

di Marina Cismondi -


Perché Sanremo non è più Sanremo – Lo confesso, sono una boomer e, come da definizione, sono nata negli anni ’60 ed ho modi di pensare ritenuti superati dalle nuove generazioni. Quindi ricordo i Festival della Canzone Italiana del secolo scorso, quando la kermesse sanremese era un vero e proprio evento, l’Evento della Rai con la “E” rigorosamente maiuscola.

Tutta la famiglia, come succedeva nella stragrande maggioranza delle case italiane, restava incollata al televisore, le strade delle città erano deserte come a Ferragosto. Non c’erano scenografie con scale semoventi in un tripudio di effetti speciali, non c’era un turnover di co-conduttori più o meno improvvisati ed ospiti internazionali con cachet a cinque zeri. Quello che immobilizzava gli italiani davanti all’ingombrante tubo catodico erano gli interpreti, la loro voce, la musica, le canzoni.

Sul palco si esibivano i mostri sacri della musica italiana, era l’occasione da non perdere per vedere ed ascoltare le esibizioni di Lucio Dalla, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Gino Paoli, Lucio Battisti, Mia Martini, solo per ricordare una manciata di grandi interpreti fra i tanti che si potrebbero elencare.
Era dove esordiva Rino Gaetano e portava sul palco la sua canzone “Gianna”, presentandosi con un cilindro, un frac ricoperto di medaglie, un papillon sulla maglietta della salute ed un ukulele: indimenticabile. E come non ricordare l’esordio al Festival del 1982 di Vasco Rossi con “Vado al massimo” (canzone classificatasi ultima) ed il suo ritorno sul palco, l’anno successivo, con “Vita spericolata” (arrivata penultima).

Canzoni che ancora adesso i giovani conoscono ed i meno giovani ricordano a memoria, spesso bocciate al Festival e che poi ebbero un successo strepitoso, come “Il ragazzo della via Gluck” di Celentano, “L’immensità” di Dorelli, “Un’avventura” di Battisti, “Piazza Grande” di Dalla, “Donne” di Zucchero, “Almeno tu nell’universo” di Mia Martini. Da questa lunga premessa – da boomer, come già enunciato – credo si evinca chiaramente che, da parecchi anni a questa parte, trovi decisamente più interessante un documentario sulla vita della Tiphia Vernalis, vespa predatrice del coleottero Popillia Japonica, rispetto alle cinque interminabili serate sanremesi.

Ho anche ipotizzato di poter fare un’eccezione per la serata delle cover, augurandomi che non venissero troppo stuprati brani come i capolavori “Crêuza de mä” e “Il pescatore” di Fabrizio De Andrè, “L’anno che verrà” di Lucio Dalla o “Quando” di Pino Daniele, ma ho rinunciato all’idea, non riuscendo a superare il terrore che mi incuteva il duetto Lucio Corsi/Topo Gigio sul palco con la canzone più conosciuta d’Italia e, secondo la SIAE, più eseguita al mondo, “Nel blu dipinto di blu”. Chissà cosa ne penserebbe Domenico Modugno, autore del brano insieme a Franco Migliacci, vincitore di quattro Sanremo fra il 1958 ed il 1962.
E visto che ormai gli argomenti relativi al Festival che tengono banco sui mass media e sui social ben poco hanno a che fare con la musica e con le canzoni, difficile trovare stimoli a seguire Carlo Conti continuando a leggere dissertazioni infinite sull’ormai noiosissima telenovelas della ex coppia Ferragnez, infarcite dai “succosi” gossip a base di corna spiattellati ad hoc dall’ex “Re dei paparazzi”, collezionista di querele, Fabrizio Corona. O dovrei forse non dormire la notte chiedendomi se Achille Lauro è effettivamente stato lo sfascia famiglie amante della Ferragni o dispiacermi enormemente per non potermi godere il testo della canzone, inclusi i “baci che sanno di Fentanyl” di Emiliano Rudolf Giambelli, in arte Emis Killa, che – daspato ed indagato per associazione a delinquere dalla procura di Milano nell’inchiesta sulle curve di Inter e Milan – si è ritirato.

Anche la stroncatura dei testi delle canzoni, da parte del professor Lorenzo Coveri dell’Accademia della Crusca, non è stata un incentivo a sintonizzare il televisore su Rai 1 (assicuro che anche noi boomer lo abbiamo, a colori, schermo piatto, con decine di funzioni a noi in gran parte sconosciute). Il professore ha infatti dichiarato: ”Quest’anno ci sono sempre gli stessi undici autori per due terzi dei brani: tutta questa omogeneità porta ad un appiattimento generale”. Pareri anche sui Modà, “versi pesantissimi, lunghissimi, più che una canzone sembra una predica di un prete”, su Fedez, “testo deprimente che parla di depressione”, su Tony Effe, “una filastrocca banale su una Roma per turisti”, su Elodie, “prosa di una banalità sconcertante”. Coveri promuove solo i testi di Brumori sas, Corsi e Shablo. Tre canzoni su trenta.
In attesa della proclamazione del vincitore – secondo i bookmaker in pole position c’è Giorgia, seguita da Olly ed Achille Lauro – ed in trepidante attesa di leggere le solite polemiche post Festival, auspicando di reperire dissertazioni di vitale importanza, tipo quelle sul ballo del Qua-Qua e le sneakers sponsorizzate, sugli abiti nude look di Chiara, Ambrogino d’Oro per la beneficenza, poi inciampata e caduta su un pandoro Balocco, sulle simulazioni di coito fra Rosa Chemical e Fedez e su chi prenderà i fiori a pedate, auguro buon Festival ai diversi milioni di ascoltatori che anche quest’anno hanno garantito alla Rai lauti incassi (si parla di circa 170 milioni) da sponsor e spot pubblicitari per tutti i gusti.

Gino Paoli, chiede un ritorno alle radici del Festival, valorizzando le qualità artistiche e non solo il business delle case discografiche e della rete televisiva: “Una volta le case discografiche mandavano la canzone migliore che avevano, arrivavano le migliori canzoni. Era il Festival della canzone, non era neanche importante chi la cantasse”. Ora Paoli lo ritiene uno spettacolo dove arriva di tutto e dove solo gli scandali fanno parlare di Sanremo. Io la penso come lui, perché, per me, Sanremo non è più Sanremo.


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