LA FILIPPICA – La tua giustizia non è la mia: quando le toghe vogliono condizionare il volere del popolo
La tua giustizia non è la mia. Succede quando prevale il classico dialogo tra sordi. Tanto più che nessun attore costituzionale, in uno Stato di diritto imperfetto come lo sono le democrazie occidentali, può essere al di sopra della legge. Certamente il potere esecutivo, eletto dal popolo, ma neppure quello giudiziario, che a volte si nasconde dietro alcuni feticci come l’obbligatorietà dell’azione penale, che può diventare discrezionale, per esercitare un ruolo politico che non gli appartiene. Un ruolo per condizionare il volere del popolo sovrano. La riforma della separazione delle carriere nella magistratura, uno dei piatti forti del governo Meloni, è arrivata in prima lettura alla Camera ed ha innescato a distanza di pochi giorni – è certamente una casualità – il caso Almasri, con l’apertura di un procedimento penale a carico della premier, di due ministri e del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, per la restituzione alla Libia per ragioni di sicurezza nazionale del sanguinario capo della polizia giudiziaria inseguito da un mandato di cattura internazionale. “Chi tocca i fili muore” si sarebbe detto un tempo. Eppure quante volte lo abbiamo sentito ripetere in un dibattito pubblico o in televisione, cioè che la Carta costituzionale divide in modo tassativo il potere giudiziario da quello parlamentare e da quello governativo. Ognuno è legittimato nel proprio ambito. Durante la rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite, quando una classe politica che aveva evidenti problemi giudiziari venne spazzata via, certificando la morte della prima Repubblica sostenuta da alcune forze politiche e dall’opinione pubblica, alcune frange della magistratura hanno certamente, ormai lo dice la storia, condizionato la politica assumendo un ruolo pubblico. Il caso del Pm Antonio Di Pietro, divenuto ministro, è la prova. Quell’esperienza oggi si è conclusa perché a distanza di oltre trent’anni i cittadini non avvertono più questa come una necessità poiché le esigenze sociali sono cambiate. Anzi, i sondaggi su un partito dei giudici rilevano un consenso limitato, poiché il popolo sovrano sente con somma urgenza il problema di una giustizia rapida e giusta. Quasi un ossimoro alla luce delle esperienze degli ultimi lustri. Mentre è plastica la difficoltà degli altri due poteri, quello parlamentare è quello esecutivo, perché soffrono una ricorrente ingerenza della magistratura, nonostante sia vietata dalla Carta costituzionale. E allora le parole di un imprenditore come Flavio Briatore diventano più attuali che mai. La giustizia deve fare giustizia, deve applicare le leggi e non continuare ad interpretarle in maniera troppo estensiva, dando l’impressione di volere modificare quelle norme che non condivide. Ovviamente si parla di una parte minoritaria delle toghe, quella che tra l’altro non nasconde il proprio pensiero politico, quella oggi guardata con legittimo sospetto dalla maggioranza degli italiani, una maggioranza evidentemente silenziosa, quella che più alimenta il Pil del Paese nonostante le difficoltà e la crisi; quella maggioranza non sostenuta da alcun media e da alcuna trasmissione schieratissima, come da nessun giornale, ma che quando va a votare lancia messaggi indiscutibili. Sia ben chiaro, non voglio schierarmi a favore di Tizio o di Caio, non voglio nemmeno essere colui che come un maestrino dà i voti a chicchessia o compila pagelle, ma chiedere che venga rispettato il dettato della nostra Magna Carta e gli intenti dei padri fondatori della Repubblica, credo che sia doveroso e che ognuno debba riconoscerlo. Sapendo anche fare un passo indietro per il bene collettivo. E se questo non avviene, credo che sia un dovere del Parlamento votare leggi che rafforzino le prerogative del popolo sovrano, per evitare di assistere all’eterno ritorno delle estenuanti discussioni che la tua giustizia non è la mia, perché prevalgono continue invasioni di campo.
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