Fermi tutti: mentre i mercati tracollano al solo tintinnare dei dazi, Donald Trump congela, di un mese, quelli verso il Messico e riapre il tavolo di confronto con Justin Trudeau per il Canada. Tutto accade mentre la Cina ha chiesto a The Don di ripartire dal vecchio accordo commerciale siglato nel 2020 e mai davvero messo in pratica poiché cassato, nei fatti, dall’amministrazione dem di Joe Biden, tutt’altro che propensa a mantenere in piedi la globalizzazione come la conoscevamo (e l’Europa lo ha imparato a sue spese, ricordate Intel?). La vicenda dazi s’è sbrogliata quando, in Italia, si stava già suonando il de profundis. Il Messico ha accettato di schierare contingenti di forze dell’ordine (l’accordo è su ben 10mila agenti della Guardia nazionale) alla frontiera per bloccare non solo i migranti ma, soprattutto, i contrabbandieri di fentanyl. Il governo centramericano ha ottenuto, da Washington, l’impegno a frenare l’export di armi che finisce per armare la lotta, annosa e senza esclusione di colpi, tra i narcos locali. Il risultato, per adesso, è la sospensione dei dazi: se ne riparlerà tra un mese. Le delegazioni sono al lavoro anche per risolvere l’impasse col Canada. Che, da parte sua, aveva già preparato liste di prodotti Usa da tassare (dall’abbigliamento fino alle armi) mentre lo Stato dell’Ontario aveva già stracciato i contratti per la copertura internet sottoscritti con Starlink di Elon Musk. Resta in piedi la questione con la Cina. Nemmeno il Dragone ha troppa voglia di una rottura totale con gli Stati Uniti e, secondo il Wall Street Journal, oltre ad aver ripreso il vecchio piano siglato ormai quasi cinque anni fa, si sarebbe detta disposta a lasciare il valore dello yuan inalterato e, contestualmente, a dare un serio giro di vite sulle esportazioni di fentanyl. Che, come dimostra l’accordo siglato con la presidente messicana Claudia Sheinbaum, per Trump rappresenterebbe uno degli obiettivi primari da cogliere con la politica dei dazi.
Sembra una storiella a lieto fine. Con un unico, solo, grande sconfitto, per ora: l’Ue. Che, mentre attende la sentenza, già si iscrive nel novero degli stangati. Ne sono arci-convinti i mercati che, al solito si fanno prendere dallo sconforto (o dall’avidità) prima che le cose accadano sul serio. La stangata, per l’Europa, è arrivata. E al di là del mezzo tonfo delle criptovalute, che però resta fisiologicamente collegabile al rialzo mostruoso delle settimane e dei mesi scorsi, c’è il tema dei temi, ossia l’indebolimento, oltre che delle maggiori piazze affari europee, dell’euro sul dollaro. Con l’ormai asseverata situazione per cui la moneta comune del Vecchio Continente vale quasi alla pari di quella americana. Un dollaro viene via per 0,97 eurocent. È un guaio. Già, perché dal momento dalla Russia gas non ne arriva più, gli Stati Uniti sono diventati tra i maggiori fornitori di gnl. E se il dollaro si rafforza sull’euro, per gli europei, la stangata è doppia. Non sembra certo un caso, dunque, il fatto che il gas sia arrivato, al Ttif di Amsterdam, oltre ogni soglia temuta. Ieri ha sfiorato i 55 euro al megawattora. Ma a far paura, più che il costo in sé, è la progressione geometrica degli aumenti. Che, dovesse continuare così, innescherebbero una spirale di tensione inflattiva di dimensioni impressionanti, simile a quella che si è abbattuta sull’Europa nel 2022. Solo che, a differenza di allora, il Vecchio Continente è stanco, sfibrato. Nel frattempo, l’Europa fa la voce grossa, con l’alto rappresentante Kaja Kallas che tenta di stemperare i toni in nome del riarmo: “La difesa europea è strettamente collegata alla Nato, quindi è necessaria una cooperazione più stretta. Non ci sono vincitori in una guerra commerciale: se Ue e Usa iniziassero una guerra commerciale, chi ne beneficerebbe sarebbe la Cina”. Macron ritiene di dover avvisare Washington: “Se venissimo attaccati sulle questioni commerciali, come potenza unita, l’Ue dovrà farsi rispettare e quindi reagire”. È l’unione, però, quella che manca. Olaf Scholz, il cancelliere tedesco con un piede e mezzo fuori da Schloss Bellevue, getta acqua sul fuoco ma ritiene che Bruxelles “come area economica forte” possa “anche reagire alle politiche doganali con politiche doganali”. Per la Germania, tra automotive, chimica e farmaceutica, la paura dei dazi è qualcosa di solido, di vero, attesa con ineluttabilità. Ieri i leader Ue si sono riuniti per tentare di mandare una risposta agli Usa. Unione, chiedeva Macron. Eppure avrebbe preparato un terreno più che ostile a Giorgia Meloni, all’incontro informale dei capi di governo di ieri, “accusata” di voler spuntare, per l’Italia, condizioni più eque dal suo amico Trump e che, in realtà, avrebbe tentato di porsi come sherpa nel dialogo tra le due sponde dell’Atlantico senza, però, passare prima per Bruxelles. Che, al solito, quando il gioco si fa duro dimostra di non avere una linea chiara, almeno al momento. In serata la nota più distensiva dei leader che: “sottolineato il valore del partenariato tra l’Ue e gli Usa, che ha radici profonde ed è destinato a durare nel tempo”, hanno convenuto che “quando sorgono problemi è necessario trovare soluzioni”. Anche ai dazi, anche con Trump.