Ti odio dunque sono
di Elisabetta Aldrovrandi
Il 25 novembre, giorno dedicato all’eliminazione della violenza sulle donne, è passato da poco. Sono stati diffusi dati sconcertanti, che ogni anno si ripetono in una litania ininterrotta e irrisolvibile: 104 le donne uccise tra il primo gennaio e il 20 novembre di quest’anno: 88 in ambito domestico, 52 presumibilmente da partner o ex partner. Di queste, soltanto il 15% aveva denunciato il suo carnefice per maltrattamenti in famiglia o atti persecutòri. Il 63%, invece, non aveva mai parlato con nessuno delle violenze subite tra le mura domestiche. Violenze che, invece, si verificavano. Ed erano assorbite in modo silenzioso, costante, sofferto, in uno stillicidio quotidiano che annienta autostima, dignità speranze. Uno degli ostacoli più gravi alle battaglie contro la violenza domestica e di genere è rendersi conto di essere “vittima”. Prendere consapevolezza che quelle mortificazioni e umiliazioni, quell’isolamento da amici e familiari, quella pretesa di gestire i redditi di entrambi, quegli spintoni o schiaffi, sono violenza. Siano essi perpetrati assieme, singolarmente, in via alternata o simultanea. Non è facile accettare che la persona scelta per costruire un futuro assieme sia quella che quel futuro lo distrugge, ogni giorno. Eppure, è una presa di coscienza che va fatta, se si vuole interrompere una spirale che avvolge e stritola ogni più elementare diritto umano, primo fra tutti quello dell’uguaglianza. Chi usa violenza parte dal presupposto che l’altro valga di meno, che sia qualcuno da comandare e gestire, anche, se necessario, con la forza. E più tardi nasce la ribellione, più la reazione del maltrattante può essere violenta. Per questo, è fondamentale riconoscere da subito atteggiamenti di possesso travestiti da istinto di protezione, tendenza a creare una bolla che isola dal resto del mondo, manipolazione economica fatta passare per presa in carico delle esigenze della famiglia: comportamenti che inizialmente lusingano, ma che nascondono personalità tipicamente narcisistiche e manipolatorie a rischio di violenza, quanto meno psicologica, da cui bisogna prendere le distanze il prima possibile. Alcune delle donne uccise nel 2022 si erano rese conto di essere vittime. E avevano denunciato. Appunto, il 15%. Tra queste, Alessandra Matteuzzi, una donna di Bologna, bella, libera, indipendente, costretta a denunciare l’ex fidanzato, che non accettava la rottura della loro relazione. Lui, stando alla sua denuncia e alle indagini, la chiamava decine di volte a notte, era entrato nei suoi account, le aveva bucato le ruote dell’auto, una volta si era addirittura introdotto in casa sua salendo dal balcone. Alessandra lo denuncia a fine luglio 2022. Purtroppo, a causa di lungaggini determinate dal periodo feriale, e nonostante il “codice rosso” (forma di tutela anticipata che dà diritto a chi denuncia di essere riascoltato nelle 72 ore successive allo scopo di adottare provvedimenti limitativi della libertà sulla persona denunciata), non viene adottata alcuna misura cautelare nei suoi confronti. La sera del 23 agosto l’avrebbe aspettata sotto casa e aggredita con oltre venti colpi al suo bellissimo viso, in modo da cancellare quel volto che aveva osato rifiutarlo. Arrestato, è in carcere. Ma non è finita. La bellezza e l’esibizionismo di Alessandra sui social hanno scatenato il popolo hater, che si è profuso in commenti negativi sulla donna e in giustificazioni sulla gelosia del presunto assassino. E allora, il circolo vizioso ricomincia. La violenza verbale che giustifica la violenza psicologica e fisica. È una questione di cultura, di mentalità. Di quale società vogliamo per noi, e per i nostri figli. Una società che deve cambiare, come cambiare, dobbiamo noi. Partendo dal fatto che bisogna denunciare, sempre.
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