PRIMA PAGINA-Scivolone del governo sul generale libico Almasri
A pochi giorni dall’indubbio e, per lo più, indiscusso successo in ambito internazionale per la risoluzione del caso di Cecilia Sala, il governo è incappato in uno scivolone. Il rimpatrio del generale libico Najeem Osema Almasri Habish con un volo di Stato, oltre a scatenare l’opposizione, ha disseminato una certa confusione anche all’interno della maggioranza. In particolare per quanto riguarda il reale motivo per il quale il torturatore libico arrestato a Torino e sul quale pendeva un mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale è stato prima scarcerato e poi rispedito in patria serenamente accomodato sui sedili di un Falcon della flotta gestita dal 31º Stormo dell’Aeronautica Militare italiana, ovvero, come detto, con un volo di Stato. Alle pressanti quanto prevedibili e anche opportune richieste di chiarimento provenienti dai partiti di opposizione, esponenti di governo e maggioranza hanno risposto in modo vago e a tratti dissonante, creando un vero e proprio guazzabuglio che non ha determinato altro effetto se non quello di alimentare le polemiche e, con esse, le congetture. Tra i corridoi della Camera, fonti di maggioranza insistono nel sostenere che la scarcerazione è avvenuta a causa di un “vizio di forma, un errore formale” che non ha consentito di perfezionare l’arresto di Almasri. Un errore che qualcuno non manca di imputare ai magistrati titolari della pratica. C’è poi chi, come il vicepremier e titolare della Farnesina Antonio Tajani, nel tentativo di derubricare l’accaduto, sfoggia una certa irrituale aggressività: “L’Aja non è il verbo, non è la bocca della verità. Si possono avere anche visioni diverse. Noi non siamo sotto scacco di nessuno: siamo un Paese sovrano e facciamo la nostra politica, l’opposizione può dire ciò che vuole”, ha sbottato il ministro degli Esteri intercettato nei pressi di Palazzo Chigi. Una dichiarazione non proprio istituzionale, tanto più perché l’organismo in questione esiste in virtù di un trattato internazionale, oltretutto siglato proprio a Roma…
Insomma, è chiaro che il caso Almasri abbia scosso il governo e che la gestione del dossier sia da un lato delicata e dall’altro abbastanza sconclusionata. Intervenendo al Question time in Senato, il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, ha tentato di ricostruire la vicenda, pur rimandando la rivelazione di particolari più dettagliati a un’apposita futura informativa al Parlamento. Nell’Aula di Palazzo Madama, il ministro dell’Interno ha spiegato che l’espulsione del generale libico “è stata individuata come misura in quel momento più appropriata, anche per la durata del divieto di reingresso, a salvaguardare la sicurezza dello Stato e la tutela dell’ordine pubblico che il Governo pone sempre al centro della sua azione unitamente a ogni profilo di tutela dell’interesse nazionale”. Tanto più, ha aggiunto Piantedosi, che la sua presenza “a piede libero” in Italia “presentava un profilo di pericolosità sociale, come emerge dal mandato di arresto emesso in data 18 gennaio dalla Corte penale internazionale”. Mandato a cui non si è dato seguito in modo definitivo perché “la Corte d’appello, nell’ambito delle prerogative di vaglio dei provvedimenti di limitazione della libertà personale, ha dichiarato il non luogo a provvedere” con la conseguente scarcerazione di Almasri. La spiegazione del ministro, tanto più per quanto riguarda il presunto problema formale sorto sull’asse tra il ministero della Giustizia e la procura generale di Torino, non è però apparsa esaustiva, in particolare alle opposizioni. Il capigruppo del Pd al Senato, Francesco Boccia, che aveva condiviso la linea con la segretaria del partito Elly Schlein nel corso di una pranzo a Montecitorio, ha infatti replicato che “non siamo di fronte ad un cavillo giuridico, ma a scelte fatte dal governo con il coinvolgimento di altri pezzi dello Stato. Si tratta di una decisione politica del governo italiano che ha riportato un criminale in Libia con un aereo di Stato. Questa decisione è stata presa a Palazzo Chigi”. Convinzione sulla scorta della quale tutte le opposizioni chiedono che a riferire in Parlamento sia Giorgia Meloni in persona.
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