Dalla Cina a Singapore: la fuga dei miliardari. Cosa deve imparare l’Ue
China flag in city. Free public domain CC0 image.
Il crollo del numero di miliardari in Cina negli ultimi anni rappresenta un campanello d’allarme non solo per Pechino, ma anche per il resto del mondo, in particolare per l’Europa. Dietro questo fenomeno, si cela un mix di politiche governative aggressive, instabilità economica e miopia strategica. Questo dramma – che molti analisti nostrani hanno persino interpretato come un segnale dell’efficacia della politica cinese, perché capace di ridurre il divario tra ricchi e poveri – offre all’UE un’opportunità unica: attirare investimenti stranieri, sottrarre capitale al controllo del Partito Comunista Cinese (PCC) e prendere le distanze dalle fallimentari politiche cinesi che rischiano di essere replicate in Occidente.
Il calo del numero di miliardari in Cina è drastico: un rapporto indica un calo da 1.185 nel 2021 a 753 ad agosto 2024, segnando una diminuzione del 36%. Questa tendenza è continuata, con il conteggio che è sceso a 427 a dicembre 2024. Esso è frutto di diversi fattori, ma possiamo citarne tre particolarmente importanti: la repressione governativa nei confronti delle aziende tecnologiche, il crollo del mercato immobiliare e la campagna portata avanti dal Partito per la cosiddetta “prosperità comune”. Quest’ultima, voluta dal presidente Xi Jinping, mira a ridurre le disuguaglianze sociali aumentando la pressione fiscale sui ricchi e limitando la loro libertà di azione economica. Tuttavia, queste politiche hanno prodotto un effetto controproducente: una fuga di capitali e talenti verso altre destinazioni più stabili e favorevoli, come Singapore, la “Svizzera dell’Est”. La Cina sta creando un ambiente fortemente ostile all’imprenditoria e agli investimenti.
Il settore tecnologico, un tempo fiore all’occhiello della crescita cinese, ha subito un vero e proprio giro di vite. La repressione degli ultimi anni su giganti come Alibaba, Tencent e Didi ha ridotto drasticamente il valore di mercato di queste aziende, scoraggiando non solo gli imprenditori locali, ma anche gli investitori stranieri. A questo si aggiunge il crollo del mercato immobiliare, con giganti come Evergrande sull’orlo della bancarotta, che ha scatenato una crisi di fiducia nell’intero sistema economico cinese.
Per rispondere a questa crisi, il governo cinese aveva annunciato ufficialmente, all’inizio dell’anno scorso, misure di stimolo fiscale e monetario per il 2025, tra cui l’espansione del credito e la riduzione dei tassi di interesse. Tuttavia, come insegna la Scuola Austriaca di economia, queste strategie sono destinate a fallire. Quando lo Stato manipola il mercato del credito, si creano inevitabilmente distorsioni economiche. Gli investitori, ingannati dai bassi tassi di interesse, si lanciano in progetti insostenibili che, nel lungo periodo, conducono a una recessione. Nonostante le previsioni ufficiali di una crescita del 5% del PIL cinese per il prossimo anno, queste stime ignorano gli effetti a lungo termine delle politiche attuali. L’accumulo di debiti e l’inefficienza degli investimenti pubblici porteranno a un’ulteriore instabilità economica e a una riduzione della fiducia degli investitori.
Per l’Europa, questa situazione potrebbe rappresentare una possibilità straordinaria. Il calo del numero di miliardari in Cina non significa che il capitale sia scomparso; piuttosto, si sta spostando verso luoghi più sicuri e stabili. L’UE deve posizionarsi come una destinazione attraente per questi capitali, offrendo un ambiente economico che valorizzi la libertà d’impresa e protegga la proprietà privata.
L’Europa dovrebbe semplificare la propria burocrazia e ridurre la pressione fiscale sulle imprese e sugli investitori. Molti miliardari cinesi stanno cercando rifugio a Singapore proprio per la sua stabilità normativa e fiscale. L’UE dovrebbe seguire questo esempio, proponendosi come un’alternativa credibile e competitiva. L’adozione di politiche di residenza fiscale vantaggiose potrebbe essere una strategia vincente.
In secondo luogo, è essenziale assicurarsi che i miliardari cinesi interessati eventualmente a investire in Europa – cosa, ahinoi, molto improbabile – siano svincolati da legami con il PCC o l’esercito cinese. Questo richiede un attento controllo dei flussi di capitale e una cooperazione internazionale per prevenire infiltrazioni che potrebbero mettere a rischio la sicurezza nazionale dei vari Stati membri.
Infine, l’Europa dovrebbe trarre lezione proprio dalle politiche cinesi. La volontà di emulazione da parte di troppi politici nostrani a Bruxelles delle misure autoritarie di Pechino, come il controllo statale delle aziende o l’espansione del credito per stimolare l’economia, rischia di produrre gli stessi disastri economici e sociali. Politiche fiscali oppressive e interventi statali aggressivi non portano prosperità, ma impoverimento generalizzato. La Cina sta mostrando al mondo le conseguenze di politiche economiche che privilegiano il controllo statale rispetto alla libertà individuale. Perché, allora, l’Occidente sembra sempre più attratto da questo modello? L’Unione Europea, con le sue crescenti regolamentazioni e la tendenza a centralizzare il potere economico, sta battendo una strada simile.
Il modello cinese non è sostenibile, è inumano. La centralizzazione del potere e il controllo sui mercati generano inefficienza, corruzione e instabilità. L’Europa deve scegliere un percorso diverso, basato sulla valorizzazione dell’iniziativa privata e sul rispetto della libertà economica. Il calo del numero di miliardari in Cina non è solo un fatto economico, ma un segnale politico, sociale e culturale di più ampio respiro. L’Europa avrebbe l’opportunità di capitalizzare grandemente con questa situazione, attraendo investimenti e talenti e, al contempo, evitando di cadere nella trappola delle politiche autoritarie, se non fosse che la sua politica è amica del libero mercato solo a chiacchiere, e non nei fatti.
È tempo, dunque, che l’UE rifletta sul proprio futuro economico e prenda le distanze da modelli fallimentari. La libertà economica è il vero motore della prosperità: ignorarla significa condannarsi alla stagnazione. Sta a noi, come cittadini europei, chiedere ai nostri leader di abbracciare una visione che premi l’iniziativa e il merito, anziché imporre ulteriori vincoli che frenano lo sviluppo.
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