Politica

PRIMA PAGINA-Open Arms: Il giorno del giudizio

di Giuseppe Ariola -


È il giorno della verità per Matteo Salvini. Dopo oltre tre anni è infatti attesa per oggi la sentenza del processo Open Arms che vede imputato l’attuale vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. L’accusa nei confronti del leader della Lega è di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio, imputazioni per le quali i pm palermitani hanno chiesto una condanna a sei anni di reclusione. I fatti contestati risalgono al mese di agosto 2019, quando la nave Open Arms, con a bordo 164 migranti soccorsi in mare, chiede di attraccare in un porto sicuro in Italia. È il secondo anno di governo giallo-verde guidato da Giuseppe Conte e i rapporti tra i due partiti di maggioranza sono ormai già ai minimi termini. Salvini, all’epoca titolare del Viminale, prosegue con la linea dura sul fronte dell’immigrazione condivisa fino ad allora dall’intero governo con l’approvazione dei decreti Sicurezza e nega a Open Arms il permesso di entrare nelle acque territoriali italiane. Ne nasce una prova di forza e di nervi che andrà avanti per diciannove giorni. I legali della ong ottengono dal Tar del Lazio la sospensione del divieto di ingresso disposto da Matteo Salvini e controfirmato dai Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, Trenta e Toninelli, e la nave sosta in prossimità dell’isola di Lampedusa. Ai migranti sono assicurati viveri, farmaci e altri beni di prima necessità, ma resta il diniego allo sbarco, ad esclusione di quello dei minori che vengono trasportati sulla terraferma. Poi la svolta con il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che sale a bordo della nave per poi disporne il sequestro e ordinare lo sbarco. L’iniziativa sconfessa la linea politica di Salvini e del governo e apre ufficialmente il fronte giudiziario con l’iscrizione del ministro dell’Interno nel registro degli indagati. Ne nasce un nuovo scontro tra politica e magistratura ancora oggi tutt’altro che sedato. I pm palermitani chiedono al Tribunale dei ministri di avviare le indagini nei confronti di Matteo Salvini e a febbraio del 2020 parte la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato. Nel frattempo, si era insediato il secondo governo Conte a trazione Movimento 5 Stelle e Partito Democratico. La maggioranza era dunque cambiata, così come, evidentemente, la posizione dei grillini sulle politiche migratorie, visto che i senatori pentastellati votarono a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex alleato che fu, dunque, concessa. Ad aprile dell’anno successivo Salvini viene rinviato a giudizio e parte uno dei processi destinato a diventare tra i più discussi della storia italiana: un ministro finisce alla sbarra per una decisione presa nell’esercizio del proprio mandato. Chiamati a deporre, Giuseppe Conte e i suoi ministri all’epoca dei fatti, Luigi Di Maio, Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, tutti i grillini sconfessano le decisioni in materia di immigrazione prese quando erano al governo e buttano la croce addosso a Salvini. Arriviamo così ad oggi, cinque anni dopo i fatti dei quali si dovrà trarre il dado nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, dove si svolge il processo. Alla vigilia della sentenza, la Lega ha fatto – come in occasione di ogni udienza del processo – quadrato attorno al proprio leader, che anche ieri ha ribadito la linea sempre tenuta nel corso di questi anni: “Rischio 6 anni di carcere e 1 milione di euro di multa per aver difeso i confini del mio Paese”. “Non sono preoccupato, sono fiducioso e determinato”, ha aggiunto Salvini dicendosi “orgoglioso di quello che ho fatto”. Netta anche la posizione dell’altro vicepremier, Antonio Tajani: “Continuo a ripetere che mi pare veramente singolare che un ministro che fa il proprio dovere venga incriminato. Non bisogna mai utilizzare la giustizia a fini politici. Questo mi pare un caso che crea molti sospetti a questo proposito. Se fossi stato un magistrato avrei agito diversamente”, tuona il leader di Forza Italia, ribadendo uno dei cavalli di battaglia del suo partito. “I magistrati devono sempre rispettare il principio della ripartizione dei poteri, che sono il fondamento della democrazia moderna”, ammonisce il segretario nazionale azzurro.


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