Economia

A Wall Street arriva il fondo anti woke

di Giovanni Vasso -

epa11706141 A sign for Wall Street outside of the New York Stock Exchange in New York, New York, USA, 06 November 2024. The Dow Jones Industrial Average as well as other market indicators were up today by as much as 3% following news of Donald J. Trump winning the US presidential election overnight. EPA/JUSTIN LANE


C’è un’aria nuova a Wall Street: arriva il fondo anti woke. Il vento del voto americano ha, inevitabilmente, cambiato le cose anche nel cuore dell’alta finanza Usa. Certo, di strada occorre farne ancora. E tanta. Ma ogni viaggio, dice il saggio, inizia col primo passo. E uno di questi, che primissimo non è ma che lo diventa se si considera il tempismo, è la nascita del fondo Etf anti-woke. Si tratta di uno strumento di investimento che ricalca l’indice 500 di S&P tranne che per un unico (e fondamentale) aspetto: al suo interno non ci saranno aziende che seguono i diktat Dei nelle loro politiche di assunzione quelle che, per intendersi, impongono quote di rappresentanza negli organici aziendali a favore di diverse minoranze. A lanciare il progetto non è stato il “solito” vecchione, qualche conservatore antico, nello spirito e nel corpo, con la foto di Abramo Lincoln sulla scrivania ma un ragazzo di 29 anni. Che però, dal momento che gli Stati Uniti non sono la vecchia Europa né tantomeno l’anziana italiana, è già ben conosciuto all’interno del mondo economico e finanziario che gravita attorno a Wall Street. Si tratta di James Fishback, Ceo e cofondatore dell’hedge fund Azoria Partners. Nei mesi scorsi era assurto agli onori della cronaca per la controversa sfida legale lanciata a Greenlight Capital, il fondo di David Eihorn (famoso anche per essere un giocatore amatoriale di poker) per una vicenda legata all’inquadramento in azienda e a titoli che Fishback rivendica e il fondo, invece, asserisce non essere mai esistiti. Fishback, che in questa campagna elettorale s’è legato ai Repubblicani, ha lanciato il progetto direttamente da Mar-a-Lago. Si chiamerà Azoria 500 Meritocracy, meritocrazia. Riprendendo una delle parole d’ordine care all’universo Gop nella lotta contro i Dei, acronimo che sta per Diversity, Equity and Inclusion, che impongono l’assunzione, alle aziende che ne accettano programmi e protocolli, di lavoratori sulla base dell’appartenenza a una o più minoranze. Un programma, questo, che nel corso dei mesi s’è concretizzato tra polemiche e paradossi, annunci e minacce di boicottaggio, su cui è svettato il tweet (poi tracimato su magliette, cappellini e altro materiale venduto a pacchi negli States) di Elon Musk che, sul caso, ha preso una posizione difficilmente fraintendibile: “Dei must Die”. Nemmeno Fishman ama troppo queste politiche: “Se credessi che i programmi Dei fossero alle loro ultime battute e che entro sei mesi tutto sarebbe finito non avrei avviato questo fondo”, ha spiegato a Mar-a-Lago. Insomma, l’obiettivo del finanziere anti-woke sarà quello di sferrare il colpo finale, decisivo, alle aziende che ancora sostengono queste politiche. Che, da qualche giorno, sono ancora più sole. Già, perché l’ultima defezione eccellente dal programma Dei è arrivata addirittura da Walmart. Si tratta della più grande catena di distribuzione al mondo, il primo datore di lavoro negli Stati Uniti, un colosso da oltre 2,1 milioni di dipendenti (1,6 soltanto negli Usa) capace di generare entrate, solo nel 2023, pari a oltre 611 miliardi di dollari. Walmart ha deciso di dire basta e di mollare i programmi woke a fronte di una sempre più netta ostilità, nell’opinione pubblica, rispetto a questo genere di politiche aziendali. Come ha già riportato la Cnn, il management della multinazionale ha annunciato di non avere intenzione di prolungare ancora l’iniziativa del Center for Racial Equity (progetto quinquennale da 100 milioni di dollari l’anno), inoltre iniziato a rivedere le sue politiche di sostegno, in termini finanziari, ai Pride e sta cominciando a valutare il ritiro dal mercato di giocattoli controversi in materia di identità di genere. Prima della grande catena di distribuzione, s’erano già sfilati icone industriali (e pop) come le officine di Harley Davidson e le distillerie di Jack Daniel’s. Il politicamente corretto non paga abbastanza. E dal momento che le aziende pensano, prima di tutto (e come è giusto che sia), ai profitti hanno scelto di imboccare un’altra strada diversa da quella percorsa, per dirne una, dalla Bud. Un marchio iconico, la birra americana per eccellenza che ha finito per perdere qualcosa come 1,4 miliardi di dollari a causa della campagna della Bud Light, un tempo in vetta alle classifiche di consumo e adesso soltanto terza nelle graduatorie di vendita sul mercato Usa, affidata all’influencer trans Dylan Mulvaney. Un boicottaggio che ha fatto epoca. E che ha dimostrato i limiti delle politiche politicamente corrette. Ora l’offensiva passa attraverso la finanza. Con un fondo anti woke il cui obiettivo è mettere la lapide sui Dei oggi. E, chissà, abbattersi sugli indici Esg, gli indici su ambiente, sociale e governance.


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