PRIMA PAGINA – Il Movimento di Conte: lui comanda, la base ratifica
Una delle balle più evidenti, una riscrittura della realtà da regime secentesco che però ha grande presa negli ambienti pentastellati, è che il M5S è entrato nel governo Draghi per colpa di Grillo, mentre Conte difendeva i valori movimentisti contro Draghi. La realtà è però molto lontana da questa imbarazzante ricostruzione. Nei fatti, alla famosa (e infelice) frase di Grillo su “Draghi grillino”, fece eco proprio Giuseppe Conte che rilasciò un’intervista nella quale dice testualmente “Se fossi iscritto al Movimento voterei sì, l’Italia ha bisogno di questo governo”. In rete la trovate qui: Governo, Conte: «Se fossi iscritto a Rousseau voterei sì a Draghi»
Quindi Conte spinge per entrare nel governo Draghi esattamente come fa Grillo. Ma ancora più importante è che i leader (anche Di Maio si era speso per andare con Draghi) non decisero nulla perché quella scelta venne proprio dalla base: saranno infatti gli iscritti a scegliere, con un voto su Rousseau, di stare al governo con Draghi. Qualcuno potrebbe dire che Grillo ha condizionato quel voto, ed è vero: lo ha fatto. Ma esattamente lo stesso ha fatto Conte, condizionandolo nella stessa direzione. E c’è una grossa differenza fra il suggerire agli iscritti come votare e l’imporre dall’alto una scelta. Per esempio appoggiare Orlando in Liguria è una scelta che Conte ha imposto a quella che chiama “la nostra comunità”, decidendo da solo e senza consultare la base. Ai tempi di Draghi la comunità invece si era espressa direttamente, aveva deciso liberamente, e chi non aveva rispettato quel voto (Villarosa, Morra, etc.) era stato espulso a norma di Statuto vigente. È dunque di solare evidenza che non fu Grillo a scegliere, eppure questo stigma da appiccicare a Grillo (che di responsabilità ne ha, e tante, ma non certo questa) è una specie di mantra, perfetto per la comunicazione partigiana in favore di Conte. Per il Fatto Quotidiano quel mantra è da mesi la pietra angolare di ogni racconto riguardante il M5S: Travaglio, Sommi, Scanzi, Gomez e persino Daniela Ranieri continuano a raccontare quotidianamente questa balla, tradendo il nome della testata per la quale scrivono. E giacché la diffusione di questo falso ha funzionato, la storiella viene usata come un jolly sempre a disposizione: ancora ieri il capogruppo Silvestri additava a quella scelta di Grillo ogni problema futuro del Movimento (e Silvestri sa bene che la scelta non fu di Grillo ma degli iscritti…), mentre il deputato Ricciardi in un video strappalacrime (che sui social de L’identità confutiamo punto per punto), ripropone quella narrazione. Nessuno però sa, ed è un piacere rivelarlo per la prima volta ai lettori de L’identità, come fu proprio Ricciardi a scegliere chi fra i deputati avrebbe dovuto avere un ruolo nel governo Draghi, ciò che fece il contiano Licheri fra i senatori. In pratica Ricciardi lavorò (tanto e bene) per la nascita di un governo che oggi dipinge come male assoluto: siamo dalle parti di Ionesco, o forse lo abbiamo sorpassato nella scala dell’assurdo. È interessante constatare come nemmeno nei talk-show televisivi nessuno ricordi a Conte (o ai suoi) dell’appoggio a Draghi né del voto su Rousseau: la balla che a decidere fu Grillo è stata evidentemente assimilata anche dai conduttori più severi con Conte. Siamo in presenza di un fattoide, trasformato in fatto nella narrazione italica e recepito da molti sfegatati grillini come verità. Peraltro i contiani d’acciaio Patuanelli, Todde e Floridia erano ministro, viceministro e sottosegretaria nel governo Draghi: se fossero stati così avversi a quell’esecutivo, come potevano farne parte, rivendicando pure sui social il successo del proprio lavoro? Grillo li ha ipnotizzati? Li ha drogati? Ha puntato loro una pistola alla tempia costringendoli a sedersi su quella poltrona che proprio detestavano? Come si fa a ricoprire un importante ruolo in un governo che non si vuole? È una tale bugia che la si potrebbe smontare in dieci secondi anche solo ricordando questo dettaglio, eppure mai la stampa italiana ha interrogato in merito Conte né tutti quelli che ripropongono il fattoide di cui sopra: evidentemente questa menzogna fa comodo a tanti.
Tradimento degli Stati Generali e nomina di Conte capo politico: fine della democrazia interna
La base del Movimento vota su Rousseau di voler entrare nel governo Draghi (dove ci saranno 13 membri grillini: è il partito più rappresentato), ma aspetta sempre di poter scegliere la propria nuova governance e votare l’organo collegiale, nonché di veder realizzato quel cambio di passo che il risultato degli Stati Generali imporrebbe. Ma il piccolo gruppo dirigente del M5S, temendo di perdere il proprio potere, rimanda e rimanda, finché – con un incredibile tradimento d’una votazione democratica – lascia trapelare di voler eleggere Giuseppe Conte (che al M5S non è iscritto e che il M5S non lo ha mai nemmeno votato) quale capo politico. In barba ad ogni regola democratica, questa ipotesi che molti attivisti reputano impossibile dopo gli Stati Generali, diventa realtà: il partito della democrazia diretta tira uno schiaffone ai suoi iscritti che avevano lavorato per mesi per formulare una riforma del partito e poi l’avevano votata a larga maggioranza. E chi è la persona che viene utilizzata per fregare tutti gli iscritti e la loro volontà? Proprio Giuseppe Conte, che andrà a prendersi una poltrona che era stata abolita. E lo farà senza nemmeno misurarsi con altri. Infatti non solo ci sarà il capo politico quando si è votato per non avere più un capo politico, ma quel capo politico non lo si farà nemmeno scegliere, verrà invece imposto dall’alto. La votazione infatti non prevede candidature al ruolo di capo politico (che adesso si chiamerà Presidente), ma solo la ratifica di una candidatura decisa a tavolino. Il quesito dunque non è “Chi volete come capo politico?”, ma il ridicolo “Volete Giuseppe Conte Presidente, sì o no?”.
È uno sputo in faccia alla base e all’intera comunità del M5S, alla sua storia e ai suoi principi. A sputare, congiuntamente, sono il reggente Vito Crimi che ordina questo sfregio, l’ex-premier Giuseppe Conte che si presta ad approfittarne per diventare la guida di un movimento che aveva scelto di non essere mai più guidato da un uomo solo, e il garante Beppe Grillo, che non solo non muove un dito per impedire questo tradimento, ma nei fatti indice la votazione plebiscitaria in favore di Conte, poiché dev’essere il garante a proporre formalmente il nuovo leader.
Ora, insieme alla balla di Grillo pro-Draghi e Conte anti-Draghi, c’è un’altra tonitruante bugia che alimenta questa narrazione faziosa incentrata sullo scontro Grillo vs Conte, chiacchiericcio sterile utilissimo a creare liste di buoni e di cattivi (con relativi tifosi) e a non parlare dei veri problemi del M5S. Questa bugia è quella secondo cui Conte avrebbe cura dei voleri della base (“siamo una comunità”, ripete, “deve decidere la comunità”) e Grillo invece un cattivone che vuole imporre la propria volontà fregandosene della base. Ma come può sostenere di avere a cuore la volontà della base, l’uomo che si è prestato a diventare leader quando quella comunità aveva espresso proprio la volontà opposta? E perché chi racconta questa bugia, accompagnata all’altra bufala secondo cui la recente assemblea costituente rappresenterebbe “la prima volta che un partito si affida ai propri iscritti”, finge di non ricordare che il M5S ha svolto solo quattro anni fa gli Stati Generali, per poi tradirne clamorosamente gli esiti?
Lo Statuto di Conte: tutto il potere in mano a lui, uno vale tutti
Per essere eletto leader, Conte doveva proporre uno statuto che in qualche modo giustificasse l’abiura rispetto alla volontà della base, e riscrivesse le regole fregandosene delle indicazioni espresse dagli iscritti. La presentazione dello Statuto a Grillo, causa però una lite furiosa fra i due ego più ingombranti del west, che porta ad un millimetro dalla rottura definitiva. Grillo posta un video in cui attacca duramente Conte e il suo Statuto, e addirittura -svegliatosi improvvisamente dal torpore- evoca l’imminente elezione dell’organo collegiale, quello che la base aveva deliberato avrebbe dovuto guidare il M5S e che lo stesso Grillo aveva fino a quel momento fatto finta di dimenticare. Si mette male per i dimaiani saldamente alla guida del Movimento fino allora: in un’elezione libera probabilmente perderebbero il controllo del giocattolo, dunque da dimaiani sono pronti a diventare contiani (spoiler: gli attuali contiani sono quasi tutti ex-dimaiani, gente che sta con chi comanda) e lavorano per una sintesi. Oltre al reggente Crimi, ci sono Patuanelli, Taverna e Licheri a cercare una mediazione. Grillo prende tempo, e ai tre si aggiungono “ufficialmente” Fico, Di Maio, Beghin e Crippa: i sette saggi che dovrebbero salvare la baracca. In effetti, dopo comunicati stampa infuocati, frecciatine e veri fendenti, l’omicidio della volontà espressa dagli iscritti riesce: Grillo cede e la frattura si ricompone.
Questo è un momento cruciale nella storia del Movimento, perché la lite Conte-Grillo ed il desiderio di ricomporla per evitare ulteriori cali di consensi e credibilità, fa passare in secondo piano il contenuto dello Statuto proposto da Conte. E invece la svolta autoritaria del M5S passa tutta da lì, da uno Statuto che nessuno legge ma che stravolge totalmente ciò che fino ad allora era stato il Movimento. Paradossalmente gli Stati Generali, che dovevano riportare più potere nelle mani di iscritti ed attivisti, proprio per i risultati molto “movimentisti”, finiscono per togliere ogni potere alla base, e concentrarlo nelle mani di un solo uomo: Giuseppe Conte. Lo statuto difatti regala un potere immenso al Presidente, che è “unico titolare e responsabile della determinazione dell’indirizzo politico”, dirige e coordina la comunicazione, presiede il consiglio nazionale, nomina i vicepresidenti, attribuisce la funzione di vicario, decide l’assunzione del personale e il conferimento di incarichi professionali (leggi: elargisce stipendi), designa i coordinatori a livello territoriale (regionale, provinciale, comunale), decide eventuali alleanze politiche locali, nomina di fatto oltre il 90% dei membri del Consiglio Nazionale (i coordinatori e i membri di tutti i comitati), nonché i referenti territoriali, azzerando in un sol colpo la richiesta di democrazia dal basso che è nel DNA pentastellato e che gli SG chiedevano di rafforzare. In un attimo diventa evidente come chiunque voglia far carriera dentro al Movimento non può contare sul proprio consenso ma solo sul suo rapporto col Presidente poiché è lui che elargisce ruoli e galloni. Ipocritamente nello statuto c’è scritto sempre che organi e ruoli apicali vengono “scelti dall’assemblea su indicazione del Presidente”, il che significa in soldoni che – come del resto era previsto per l’elezione del Presidente stesso – Conte nomina chi vuole e poi gli iscritti devono votare a scatola chiusa Sì o No. È di fatto la fine di ogni autonomia per qualunque iscritto al M5S, la fine di ogni spazio reale di democrazia interna (figure che erano scelte dagli iscritti come i facilitatori, locali e nazionali, vengono abolite). È l’imposizione della volontà personale di Conte sul partito: come in “Le mani sulla città”, c’è qualcuno che ha fatto proprio un patrimonio collettivo, con la complicità interessata dei gerarchetti speranzosi in un incarico o nella deroga ai due mandati per continuare a sedersi su una poltrona ben retribuita. Di fatto, naturalmente, è anche la fine di ogni pluralismo: sapendo che è Conte e solo Conte a distribuire ruoli e possibilità di crescita all’interno del partito, dissentire diventa rischiosissimo, e la fedeltà al capo diventa l’unica possibilità di farsi strada nel fu Movimento dei cittadini. Muore il dissenso interno, muore la possibilità di essere una forza plurale guidata da tanti. Che è rimasto del Movimento Cinquestelle?
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