Tff: realtà e cinema in Iran, una sorprendente intersessualità in Tunisia
La parola che più si legge nelle pagine cittadine dedicate al cinema dei quotidiani torinesi e con le chiacchierate, con il passaparola e le agenzie di stampa – e non soltanto in casa nostra per cui la notizia è doppiamente bella e confortante -, è sold out. Alberghi con un pressoché en plein invidiabile, i ristoranti che sfornano pranzi e cene a gruppi che a fine giornata hanno voglia di riassumere e di discutere, sale e proiezioni a cui devi rinunciare, lamentando in cuor tuo una terza occasione per taluni titoli e la mancanza totale di una previsione rosea, più che rosa da parte dell’organizzazione. Ovvero la mancanza di una sala che recuperi al proprio interno la domanda di un pubblico variegato e credo proprio quest’anno accresciuto – leggeremo le cifre finali con attenzione -, esigente non soltanto di titoli (e quelli non mancano) ma altresì di appuntamenti, una di quelle sale torinesi che, quest’anno, forse per un mancato soddisfacimento della richiesta e dell’offerta, non si sono più prestate. Se la sala del Centrale, per le proiezioni stampa, non va incontro a problemi, non poca parte del pubblico ha già il muso lungo per aver dovuto rinunciare a questa o quella visione, per aver trovato il Romano (3 sale) e Massimo (in egual numero) già zeppe, nonostante i personali tentativi dell’ultimo minuto. I seguaci del concorso principali finiranno col sentirsi defraudati e dei sedici titoli qualcuno mancherà all’appello.
Per i cinefili onnivori è una gran gioia, glielo si legge negli occhi, titoloni scomparsi da tempo e adesso inseguiti – per la retrospettiva di Brando, per cui il direttore Giulio Base non sarà mai troppo lodato, boccone grosso e per molti organizzatori forse irraggiungibile, si va a rincorrere quei titoli da tempo più visti: volendo ripassare il versante drammatico e “da commedia” dell’attore, chi scrive queste note s’è andato, tra vari titoli, a vedere “Un tram che si chiama Desiderio” e “Bulli e pupe” ed è stata ancora una volta una festa – in ogni ora della giornata, per predisporre un’agenda copiosa. E altro ancora: “A casa abbiamo tutti un cassetto – faceva Base la sua bella confessione alle pagine della Rivista del Cinematografo – dove mettiamo cose preziose, importanti, che magari, però non sappiamo bene dove sistemare. Un cassetto dove c’è un po’ di tutto e ogni cosa ha un valore.” Leopardianamente, il direttore ha chiamato quel suo cassetto “Zibaldone”, ci trovi di tutto, da “Caccia a Ottobre Rosso” che è l’occasione per consegnare ad Alec Baldwain la Stella della Mole, o “Pasqualino Settebellezze” grottesco tutto firmato Lina Wertmuller, e allora è la volta del nostro Giannini che si guadagnò una candidatura all’Oscar, o “Un silence si bruyant” dove una bravissima e dolorosa Emmanuelle Béart racconta la violenza subita o “Prova d’orchestra”, ’70 minuti di cinema alto in cui il mago Fellini raccontava il presente e prevedeva il futuro. O “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) – e nella presentazione t’aiuta un inarrestabile monsignor Davide Milani, che non smetteresti d’ascoltare, raccontandoti dell’interprete Enrique Irazoqui, capitato a Roma per cercare fondi per la causa antifranchista e scelto da Pasolini al primo sguardo, delle facce scovate tra i Sassi di Matera, vere e sanguigne e antiche, decisamente più vicino a noi dei tanti volti hollywoodiani che la immediatezza di un progetto voleva impiegare, del terrore di incorrere nella giustizia italiana, fresco il ricordo dei guai (vilipendio della religione) sostenuti da Bini e Pasolini due anni prima, ai tempi della “Ricotta”. La voce di Enrico Maria Salerno, la narrazione che segue esattamente quel Vangelo senza nulla aggiungere (“qui non esiste sceneggiatura”, ripeteva Milani), i costumi di Donati e il montaggio di Baragli, le musiche da Bach a Mozart, da Prokofiev alla Missa Luba, proveniente dal Congo, e lo sguardo cinematografico del regista, semplicemente grandioso in quella semplicità che espone scena dopo scena.
Venendo al concorso dei lungometraggi, rose e spine in quasi egual misura, arrivando a oggi. Con “The Last Act” guardiamo al cinema iraniano, il regista si chiama Paymon Shahbod alla sua opera prima, una storia che coinvolge la star del cinema Farzaneh chiamata a interpretare il ruolo di una donna alla ricerca della figlia scomparsa. Molte riprese lungo le strade assolate e tortuose dell’Iran, con la polizia che ti sorveglia e non poche volte ti chiede ragione di quel che stai facendo o cerca un pretesto per farti ritardare o interrompere. Farzaneh si mette in viaggio con il resto della troupe, dovrà girare la scena dell’incontro con la figlia: ma ecco che su quel medesimo autobus il cellulare squilla e le arriva la notizia che la sua vera figlia è scomparsa. Mentre il marito le intima di tornare a casa e di abbandonare tutto quanto, la donna decide di rimanere sul set dove è un continuo ripetere battute e arginare le indecisioni e i consigli sbagliati del regista. Ancora una volta vita e finzione hanno parecchi punti in comune, l’importante è renderli appieno davanti alla macchina da presa e con sempre il regista riesce a rendere chiarezza nel proprio racconto, a delimitarne le aree con sufficiente precisione. Decisamente di poco peso mi pare risulti “Ponyboi” che Esteban Arango dirige mentre River Gallo interpreta scrive e produce. Siamo nel New Jersey, durante la notte di San Valentino, quella dei festeggiamenti e degli amori, quando il protagonista – sembra un diligente impiegatuccio in una lavanderia ma spalanca ai quattro venti le proprie mansioni di “sex worker” – apprende che il padre, da cui ha staccato da circa una decina d’anni, sta morendo. La madre al telefono supplicherebbe una via di riconciliazione ma le strade da prendere quella notte sono altre. Per sprazzi, il passato si mescola in modo troppo convenzionale e ben atteso al presente, quella sua condizione di essere intersessuale continua a bussare alla porta: in più per gradire con gli affetti familiari decisamente deteriorati s’aggiunga un bell’affare di droga e borsate di bigliettoni che vanno in fumo e per sottrarsi al quale niente di meglio che abbandonare più che velocemente l’incantevole New Jersey. “Ponyboi” non è un ritrattino ultramoderno e sanguinoso su cui riflettere, ma un inseguirsi di sequenze già viste mille volte in qualche thriller inserito ina serie non proprio eccelsa.
Le cose vanno decisamente meglio con “L’aiguille” del tunisino Abdelhamid Bouchnak dove, dopo vari tentativi, un bambino verrà messo al mondo all’interno di una coppia, ora veramente decisa e appagata. Se è vero come è vero che quest’anno il TFF raccoglie nel concorso principale storie raccolte al tema della maternità, è pur vero che preziosi interessi sono rivolti alle scelte sessuali o a quella – sconvolgente, innegabile! – intersessualità che troviamo anche in questo film. Nasce “questo” essere umano, il vecchio nonno spinge ai consigli della guida religiosa mentre la nonna si cerca di tenerla all’oscura ma i tempi non possono certo essere lunghi. La cultura è quella musulmana e il padre incarna pienamente un presente maschilista che guarda ai giudizi, agli amici, al domani e che rifiuta del tutto quella nascita. Sarà la madre – la donna – a prendere la decisione di accogliere quell’essere in tutta la propria unicità: nell’ultimo fotogramma Nour, “un nome che va bene per tutti, per maschi e per femmine” – guarda in macchina prendendo lo spettatore a testimone della sua crescita e della sua indipendenza.
Elio Rabbione (ilTorinese.it)
Nelle immagini, Pasolini e il protagonista Enrique Irozoqui durante le riprese a Matera del “Vangelo secondo Matteo” (foto di Domenico Notarangelo), scene tratte da “The Last Act” (Iran), “Ponyboi” (Usa) e “L’aiguille” (Tunisia/Francia).
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