Attualità

Nassirya, la testimonianza: “Quello che ho visto ti segna per sempre”

di Redazione -


Nassirya, 21 anni dopo: la testimonianza di GIANFRANCO SCALAS*
Ero lì con l’incarico di addetto stampa del contingente della Brigata Sassari. Il mio ricordo non è mai stato un ricordo, perché è sempre presente. Vive con me e in me. Non è retorica. In quella strage ho perso praticamente tutto l’ufficio stampa, perché il maresciallo capo Silvio Olla era un mio collaboratore in quella struttura per la stampa, il capitano Massimo Ficuciello era un mio collaboratore, oltre i due feriti della Brigata Sassari. È stato il momento più difficile di tutta la mia carriera di addetto a stampa. Ho fatto missioni in Somalia, Kosovo, Albania, Bosnia. L’Iraq è stata la missione che indubbiamente ha lasciato un segno nella mia persona, non solo da militare, ma nella mia anima. Essere riuscito ad andare avanti, dopo aver visto quel fumo nero a distanza e poi essere arrivato lì e vedere quello che ho visto, è qualcosa che segna la tua vita per sempre. Per 4 giorni e 4 notti ero un vegetale, senza mangiare e senza dormire, e ho tenuto a bada una quarantina di giornalisti di ogni parte del mondo. Non ne parlo mai volentieri. Vedi accumulate una serie di cose: l’inutilità della vita, la crudeltà, la bestialità, l’assurdità, il non senso di questa macelleria, di una morte non normale. Uno muore, e si sa, ma quella straziata non ha paragoni. Per abitudine programmavo il giorno prima per quello successivo anche se poi stravolgevo all’ultimo la scaletta. Così accadde anche il giorno della strage, il 12 novembre: cambiai programma e dissi a Ficuciello di andare ad accompagnare il regista Rolla. Obbedì è si mise anche il mio giubbetto tanto poi dovevamo vederci più tardi. La scorta, con a capo il maresciallo Olla, uscì mentre io rimasi in ufficio a sbrigare alcune faccende urgenti e comunicai ai miei uomini che sarei andato il giorno seguente. La scorta di due mezzi si mise in moto per raggiungere i carabinieri. Erano le dieci locali, stavo dando disposizioni, all’ingresso del comando dove avevamo la base, e a un certo punto ho sentito un boato. Sono uscito fuori e ho visto dalla porta questo fumo nero enorme che saliva. Con una radiolina ho sentito le urla del maresciallo e sono partito come un razzo con due mezzi. Sono arrivato vicino al ponte sull’Eufrate e notai gli effetti di quello che era successo: cemento e pietrame sparsi fino al ponte e alla fine dello stesso vidi che la struttura era sventrata. Io scesi dal VM, senza basco, e vidi migliaia di iracheni attorno alla struttura e una cosa che mi è rimasta sempre impressa: la folla si aprì al mio varcare in un silenzio irreale, rotto da esplosioni di munizionamento. Avevano compreso che contavo qualcosa e mi guardavano attoniti. Ecco, mi ricordo l’espressione degli iracheni. Voglio ricordarmi solo quei loro volti, perché cerco inutilmente di togliere altre immagini indescrivibili che mi appaiono. Anche perché in questa carneficina hanno perso nove persone più qualche bambino. Mi riposai dopo circa venticinque giorni quando mi portarono in ambulanza in ospedale. Mi risvegliai con le carezze sui miei capelli delle crocerossine che per una notte intera si susseguirono al mio capezzale. Vorrei far capire cosa è avvenuto e come un militare vive certe esperienze. Io sono un sopravvissuto ma si pensi sempre solo al rispetto per chi, innocente, ha pagato con la vita la cultura della guerra e della insulsa ideologia del terrorismo.

*già Direttore della Pubblica Informazione dell’Esercito


Torna alle notizie in home