Usa, scontro all’ultimo voto con il rischio “guerra civile”
Il grande giorno delle elezioni presidenziali statunitensi è arrivato. Sarà Donald Trump o Kamala Harris a prendere il posto di Joe Biden come inquilino della Casa Bianca? L’orario di chiusura dei seggi è differente nei 50 Stati perché gli Usa hanno 6 fusi orari. I primi a chiudere a mezzanotte (ora italiana) saranno Indiana e Kentucky, a seguire all’una di notte del 6 novembre chiuderanno Florida, Georgia, South Carolina, Vermont e Virginia. Alle 2, invece, sarà la volta di due Stati in bilico, Pennsylvania e del Michigan. Fanalino di coda sarà l’Alaska alle 6 di mercoledì 6 novembre ora italiana.
Considerato il testa a testa che si è profilato tra il tycoon e la vicepresidente, è prevedibile che si debba aspettare qualche giorno per conoscere il nome del vincitore. È difficile che possano essere quattro come nel 2020, ma non è da escludere a priori.
Anche quest’anno sarà alta la percentuale alta di voto per posta, ma quasi tutti gli Stati ora permettono di aprire e controllare la validità dei voti così espressi prima dell’Election Day. Il processo di controllo comprende la verifica della firma degli elettori e le altre informazioni scritte sulla busta che contiene la scheda. In seguito si procede a preparare i voti ritenuti validi per essere letti dalle macchine elettorali.
Il sistema americano prevede il voto di collegio, con un suffragio universale indiretto. Gli Stati Uniti sono divisi in cinquanta Stati e ciascuno ha un certo numero di Grandi Elettori, basato sulla sua rappresentanza al Congresso. In totale sono 538, una cifra che deriva dalla somma dei 435 rappresentanti della Camera, i 100 del Senato e i tre in rappresentanza della capitale, Washington DC. Sebbene i cittadini votino per un candidato alla presidenza, la loro preferenza, da un punto di vista squisitamente tecnico, è per un gruppo di Grandi Elettori designati dai partiti per sostenerlo. Saranno poi loro a votare il candidato presidente che ha vinto il voto popolare nello Stato di cui sono rappresentanti. Il candidato che riceve almeno 270 voti dei Grandi Elettori vince.
I voti elettorali vengono aggiudicati con un maggioritario secco, che viene definito il “winner takes all”. Fanno eccezione Nebraska e Maine, che hanno scelto il proporzionale. Gara serrata nei sette Stati indecisi. Secondo un sondaggio del New York Times e Siena College, la Harris ha un vantaggio in Nevada, North Carolina e Wisconsin, mentre Trump è davanti in Arizona. In Michigan, Georgia e Pennsylvania, i due contendenti sarebbero appaiati. In Pennsylvania “The Donald” avrebbe recuperato il gap.
La vicepresidente degli Stati Uniti e candidata democratica alla presidenza Kamala Harris ha annunciato di aver votato per posta. “Ho appena votato, la mia scheda è in viaggio verso la California”, ha dichiarato domenica.
Straordinarie le misure di sicurezza predisposte. Sono state erette barriere protettive alte circa 2,5 metri di altezza intorno alla Casa Bianca, a Capitol Hill e al Naval Observatory, la residenza di Harris. Delle inferriate sono state innalzate dal Secret Service per “blindare” il convention center di West Palm Beach, scelto da Donald Trump per un ricevimento elettorale.
Dalla vittoria dell’uno e dell’altro deriveranno approcci totalmente diversi in tanti campi, a partire da quello economico. Trump vuole puntare sulla riduzione fiscale e sul protezionismo commerciale per rilanciare la crescita. La strategia del magnate è audace: stimolare consumi e investimenti attraverso un “fisco leggero”, scommettendo sul settore privato. Harris, al contrario, privilegia una crescita sostenibile, con una maggiore spesa sociale, cercando di mantenere sotto controllo il debito e l’inflazione.
Non manca, tuttavia, chi come Jeffrey Sachs, docente di economia alla Columbia University e direttore del Center for Sustainable Development ritiene che a decidere tutto o quasi sarà anche questa volta il tentacolare “deep state”, una “macchina da 1,5 mila miliardi l’anno, operativa in tutto il mondo”.
Torna alle notizie in home