Politica

PRIMA PAGINA-La riforma delle toghe è una questione di giustizia

di Giuseppe Ariola -


Quello della giustizia è da sempre un tema politicamente divisivo e gli scontri tra governo e magistratura si accendono puntualmente quando c’è una maggioranza di centrodestra. Solo un caso? Sembrerebbe proprio di no dal momento che a provare a efficientare e a riformare un settore cruciale per la vita del Paese, per i cittadini e per le stesse istituzioni – come ultimamente si è visto più volte, dai casi di dossieraggi abusivi a quello dei migranti fatti rientrare in Italia dall’Albania – è da decenni solamente il centrodestra. I conflitti che ne sono seguiti, sia dal punto di vista squisitamente politico, sia tra la politica e la magistratura, sono sempre stati contraddistinti da una violenza che raramente si è vista in altre occasioni. Basta ricordare cosa è accaduto a livello politico e istituzionale ogni qual volta i governi guidati da Silvio Berlusconi hanno tentato di mettere mano al sistema della giustizia. Al punto che quei governi non sono mai riusciti a portare a termine una riforma profonda e organica del settore. Anche perché ad ogni tentativo di scardinare lo status quo seguivano reazioni puntualmente scomposte, spropositate e addirittura delegittimanti affinché nulla cambiasse. E l’obiezione per la quale Berlusconi voleva rivedere la macchina della giustizia in virtù delle sue vicende personali, alla luce della storia degli ultimi trent’anni, fa parte di una narrazione che francamente non sta in piedi per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, perché non si è mai visto al mondo che a un presidente del Consiglio fosse recapitato un avviso di garanzia mentre presiedeva un vertice del G7. In secondo luogo, perché Berlusconi è stato il cittadino con il maggiore numero di indagini e processi a proprio carico senza che, salvo in una dubbia e discussa circostanza, i suoi accusatori ne cavassero un ragno dal buco. Infine, perché molte delle distorsioni denunciate dal leader di Forza Italia avevano un effettivo fondamento. E forse proprio per quest’ultima ragione in particolare a ogni tentativo di riforma o modifica delle norme che regolano il sistema giudiziario corrispondeva una reazione da parte delle toghe. Una dinamica che non ha mai coinvolto i governi di centrosinistra per il semplice motivo che questi mai si sono occupati di scardinare o solamente di rivedere i meccanismi che regolano l’attività della magistratura per rendere più efficiente l’amministrazione della giustizia. Neanche quando l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel 2013, inviò l’unico messaggio alle Camere del suo settennato al Colle, invitando il Parlamento a far urgentemente fronte al dramma del sovraffollamento carcerario, prevedendo pene alternative alla detenzione o la riduzione dell’ambito di applicazione della custodia cautelare in carcere, il governo in carica, guidato da Letta, intervenne. Così come non lo fecero i successivi esecutivi guidati da Renzi – che pur lamentando ingerenze e metodi della magistratura, non ha fatto seguire alle parole alcun fatto – e Gentiloni. Al punto che queste stesse questioni sono ancora di attualità dopo oltre dieci anni e, neanche a dirlo, sono state affrontate da un governo di centrodestra, questa volta guidato da Giorgia Meloni, che ha anche avviato un’attesa riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario, a partire dalla separazione delle carriere e dalle modalità di selezione dei componenti del Csm. Ma non solo, perché il governo in carica ha anche provveduto a intervenire sull’abuso d’ufficio, a regolamentare le intercettazioni e a rivedere il reato di traffico di influenze, introdotto dalla legge Severino durante il governo Monti e inasprito durante il periodo di Bonafede al ministero della Giustizia sull’onda delle follie grilline. Misure che, neanche a dirlo, hanno scatenato la dura reazione dei magistrati e di quell’opposizione che ha da tempo abdicato al proprio ruolo a favore delle toghe. Con tutte le conseguenze del caso che, ovviamente, impattano sul centrodestra, per la semplice ragione che la sinistra sul settore della giustizia bada bene o non cimentarsi in alcun modo, evitando di provocare scontenti che potrebbero ritorcerglisi contro.


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